Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores

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Caterina aveva ascoltato con attenzione le motivazione di Michele Marullo e aveva trovato da subito i suoi modi molto accattivanti. Non le risultava difficile capire come mai Giovanni vi andasse così d'accordo, quando viveva a Firenze.

"Quindi per voi va bene, se rimango al vostro servizio?" chiese alla fine l'uomo, guardandola un po' di traverso, come se davvero non avesse ancora compreso la posizione della Sforza nei suoi confronti.

La Tigre osservò i suoi occhi cerchiati da occhiaie che denunciavano un viaggio difficile da Firenze a Forlì e i capelli castani, portati lunghi fino alle spalle, che tradivano allo stesso modo i disagi di quella traversata.

Siccome suo marito le aveva parlato molto bene di quel bizantino, apolide finché non era stato raccolto dalla patria dei Medici, la Contessa non trovò nessuna ulteriore obiezione da fare, se non una domanda che le pareva logica: "So che siete più che altro un uomo di lettere, siete sicuro di riuscire a vivere come soldato alle mie dipendenze? Avrete capito che far parte del mio esercito è un'occupazione a tempo pieno..."

Michele deglutì un istante, passandosi le mani sulle ginocchia. Lo studiolo del castellano era caldo e l'odore di carta e fumo di camino che vi si respirava era per lui molto più affascinante che non quello freddo e ruvido della nebbia che, come soldato, avrebbe di certo respirato più spesso.

Tuttavia aveva fatto quella scelta per un preciso motivo morale e quindi non voleva tirarsi indietro per nessun motivo.

"Sono un uomo di lettere, è vero – confermò – ma ho sempre dovuto cavarmela e so come sopravvivere ai momenti difficili. E so come usare bene una spada."

A quel punto, Caterina non trovò altro da dire. La pelle olivastra del suo nuovo soldato era ancora coperta da un leggero strato di polvere e perfino le sue sopracciglia folte parevano provate dal clima intemperante che l'aveva accompagnato fino a lì.

"Andate a riposare, adesso. E se avete bisogno di qualcosa, chiedete pure alla servitù, non vi verrà negato nulla." assicurò la donna, lasciando la scrivania del castellano, alla quale si era appoggiata.

Marulli ringraziò, con la sua strana pronuncia, a metà strada tra il forestiero e il fiorentino, e poi, quando stava per raggiungere la porta, venne colto da un improvviso pensiero.

"Ho portato questo, per voi, anche se non ero certo di volervene fare mostra..." sussurrò, estraendo dalla tasca interna del giubbone un piccolo plico di fogli.

"Di che si tratta?" chiese subito la Tigre, la mente che correva a qualche intrigo da sventare o a qualche lettera segreta, magari sottratta a suo cognato Lorenzo.

"Si tratta di una nenia funebre che ho scritto per il funerale del nostro povero Giovanni." spiegò Michele, mentre, nel sentire ciò, la Leonessa pareva spegnersi di colpo: "So che non siete stata chiamata per partecipare al funerale e non l'ho trovato giusto. Questa è poca cosa, ma almeno spero che vi aiuti a..."

Marulli non finì la frase, sia perché un piccolo nodo gli aveva stretto la gola, sia perché gli risultava difficile continuare. Se da un lato avrebbe voluto dire che leggendo quella nenia Caterina avrebbe potuto immaginarsi meglio il funerale, stando metaforicamente vicina al marito una volta di più, dall'altra avrebbe voluto esortarla a non pensarci più e a concentrarsi solo sulla campagna militare, perché probabilmente è così che Giovanni avrebbe voluto.

La Contessa strinse nella mano i fogli e congedò con un cenno il bizantino, in modo da poter essere sola, quando avesse letto.

Ci mise qualche minuto, prima di convincersi a dedicarsi a quei fogli. Prima si sedette alla scrivania, poi, trovando che la luce delle candele, lì, fosse troppo fastidiosa, si andò a mettere in poltrona.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora