Capitolo 377: Simul stabunt vel simul cadent

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Achille fece un respiro profondo e poi, stringendosi la cappa nel collo, infreddolito dalla pesante nebbia che si stendeva su Forlimpopoli, si fece riconoscere dalle guardie ed entrò.

Il castellano Landriani era stato molto vago sul motivo di quella convocazione, ma nella sua lettera aveva lasciato intendere che si trattasse fondamentalmente di un incontro voluto dalla Contessa Sforza per accordare finalmente un giusto compenso al Capitano.

Tiberti ci credeva fino a un certo punto, ma, tra tutti i difetti che aveva, la codardia non c'era. Così, pur immaginando di essere in procinto di cacciarsi in un guaio, aveva accettato di recarsi alla rocca.

"Vi sta aspettando..." disse il giovane Piero Landriani, accompagnando Achille fino alla porta di una delle stanze più calde della rocca.

"La Contessa è qui?" chiese il Capitano, sentendo la bocca seccarsi.

Aveva avuto qualche sospetto in più, quando, dopo essere entrato, gli era stata presa la spada ed era stato perquisito per accertarsi che non avesse altre armi con sé.

Il castellano annuì appena, senza lasciar trasparire particolari emozioni, e poi bussò un paio di volte. Senza attendere risposta, aprì e lasciò Tiberti al suo destino.

Non appena entrò, l'uomo sentì un tepore molto piacevole, in netto contrasto con l'umidità gelata che aveva trovato lungo la strada. Tuttavia, la vista della Tigre, seduta in silenzio davanti al camino, le mani in grembo e lo sguardo vitreo rivolto alle fiamme, lo fecero di nuovo tremare di freddo.

Achille restò vicino alla porta, indeciso se fosse o meno il caso di annunciarsi in qualche modo. Fu un movimento appena accennato della Contessa a fargli capire che non era necessario.

"Perché avete attaccato il confine a quel modo?" chiese Caterina, la voce bassa e senza intonazione.

Il Capitano detestava quando gli parlavano a quel modo. Avrebbe preferito cogliere la sua rabbia o anche la delusione, ma il non capire che cosa stesse davvero pensando lo faceva impazzire. Era come giocare a carte con qualcuno che conosce regole solo sue.

"Ve l'avevo detto che era l'unico modo per riuscire nell'impresa." disse Tiberti, sforzandosi di apparire molto sicuro di sé: "E sto avendo ragione. Stiamo mangiando terreno al Malatesta e lui non ha ancora alzato un dito per difendersi. Vuol dire che è solo e non ha abbastanza soldati per contrattaccare un aggressione così violenta."

"Oppure vuol dire che sta aspettando le truppe di Venezia." ribatté la Sforza, alzandosi con un sospiro dal divanetto su cui si era sistemata e avvicinandosi ad Achille.

Siccome l'uomo non trovò nulla con cui ribattere, la Contessa lo squadrò da capo a piedi. Lo trovava un po' invecchiato e su uno zigomo aveva un graffio profondo e abbastanza recente, che probabilmente si era procurato durante uno degli ultimi assalti.

"Siete al mio servizio da anni – riprese la donna, fissandolo con insistenza, ormai tanto vicina che Tiberti poteva quasi sentirne in fiato sul collo – e credevo che ormai aveste capito che i miei ordini non vanno presi alla leggera. Quando mai ho ordinato di prendere a sacco un paese in quel modo?"

Con l'orgoglio di chi teme di aver già perso tutto, Achille raddrizzò ben bene la schiena e, sostenendo lo sguardo glaciale della sua signora, disse: "Non mi avete dato soldi, né cibo, né uomini del vostro esercito. Non sono ricco. Ho dovuto aggiustarmi con quelli che ho trovato e per tener calma certa gente, bisogna permetter loro di far bottino, insozzar le donne e sfogarsi su quel che resta."

La Leonessa chiuse un momento gli occhi, le narici che vibravano appena e le labbra strette a diventare un filo.

"Voi siete in debito con me. Ricordate, quello che avete chiesto per salvare vostro fratello? E ricordate il modo in cui non avete rispettato i patti?" chiese la donna, il viso trasformato in una maschera di difficile interpretazione.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora