Capitolo 340: Amor, ch'a nullo amato amar perdona

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Dal Po si levava una nebbia fitta e gelata, ma le barche che Francesco Gonzaga aveva scelto per tornare a Ferrara stavano affrontando la prova in modo egregio.

Non sapeva dire che cosa sua moglie Isabella avesse realmente detto e promesso al Doge, ma era chiaro che i suoi maneggi avevano funzionato molto bene. Per sicurezza, lei non gli aveva scritto quasi nulla, ma lo aveva invitato comunque a lasciare Venezia in fretta, per evitare incidenti.

Senza bisogno di farla insistere, Francesco era partito subito e, seguendo il suo velato suggerimento, si era diretto senza indugio verso le terre del suocero, sperando che sua moglie fosse lì per aspettarlo e spiegargli meglio quel che era accaduto.

Poco prima di partire da Venezia, il Marchese aveva fatto in tempo a sentire delle chiacchere che non gli erano piaciute per niente. Si parlava di una guerra contro Firenze, in particolare pareva che i Serenissimi fossero decisi a fomentare Pisa, già insofferente ai tentativi della repubblica fiorentina di riprenderla sotto il proprio dominio, e di schiacciare a quel modo i nemici a tenaglia.

Appoggiandosi con un'espressione stanca al parapetto della barca su cui viaggiava, Francesco guardò le acque del fiume, così placide da sembrare finte, in quel mare di nebbia.

Grattandosi un po' la barba ispida, finì per chiedersi quanto avesse Venezia da guadagnare da Rimini, che pareva l'arma segreta di quella stupida guerra. Il Doge avrebbe salvato il Malatesta, senza dubbio, e in cambio gli avrebbe chiesto di attaccare Firenze. L'idea era buona, anche se nel mezzo c'era una grossa incognita.

In molti avrebbero potuto prendere sottogamba la signora di Imola e Forlì, una donna, ma Francesco aveva seguito con attenzione le sorti del governo della nipote del Moro e aveva capito che era molto più pericolosa di quello che si sarebbe potuto pensare per colpa della sua condizione e della piccola dimensione del suo Stato.

"Dovremmo arrivare a Ferrara prima di domani mattina." disse l'attendente del Marchese, arrivandogli alle spalle e mettendosi a fissare il corso del fiume assieme a lui.

Il Gonzaga fece un suono gutturale con la gola e poi, con un lento sospiro guardò il suo soldato e disse: "Credi che una Tigre possa bastare, per fermare il Leone di San Marco?"

L'attendente lo guardò stranito, senza capire, così il Marchese lasciò perdere e, con un colpetto sulla spalla, a mo' di incoraggiamento, gli disse: "Che si spingano al massimo le barche. Voglio arrivare a Ferrara prima che spunti il sole."


 "Caina attende chi a vita ci spense..." sussurrò Giovanni, smettendo di leggere e chiudendo il libro con l'indice tra le pagine per tenere il segno.

Caterina non disse nulla, restando con gli occhi puntati verso il camino acceso. Era un pomeriggio tranquillo, troppo freddo e nevoso per permettere di continuare i lavori al mastio. Il Consiglio si era sciolto in fretta e per il resto la Contessa era rimasta libera.

Seguendo quel suggerimento che il fato le aveva lanciato, aveva cercato il Medici e aveva trascorso con lui il tempo che era riuscita a strappare ai propri impegni. Tuttavia, benché non desiderasse altro che concentrarsi su di lui, aveva troppi pensieri per la testa e l'attesa la stava logorando.

Achille Tiberti le aveva scritto con toni molto ottimisti, ma aveva anche aggiunto che vista l'instabilità del clima riminese, preferiva prima fare qualche breve sortita nelle campagne vicine alla città.

A Caterina non era piaciuto il termine esatto che aveva usato, ovvero 'razziare', perché aveva intuito che quella sarebbe stata un'azione negletta e criminosa, non molto diversa dallo scempio che aveva colpito Mordano qualche anno addietro.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora