Capitolo 262: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.

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"Mangia qualcosa." intimò Lucrezia, con freddezza, ma con una decisione che sottintendeva una sincera preoccupazione.

"Non è il momento di mangiare." la zittì Caterina, ponendosi il velo sul viso.

Bianca, l'unica dei giovani Riario presenti alla rocca che aveva deciso di partecipare al funerale, osservava tesa la madre e la nonna, sperando con tutta sé stessa che nessuna delle due dicesse qualcosa di troppo secco, scatenando un litigio proprio in quel momento.

Per quanto loro stesse sembrassero non accorgersene, la ragazzina aveva sempre notato in loro caratteristiche molto simili e, in quel caso specifico, gli spigoli caratteriali che condividevano avrebbero potuto portarle ad accendere un fuoco proprio quando meno opportuno.

Lucrezia si morse le labbra, e riprovò: "Volerai per terra, se non mangi nulla. Nemmeno tu puoi andare avanti tanto, con lo stomaco vuoto."

La Contessa sbuffò e non rispose nemmeno.

Stavano aspettando Tommaso Feo e il piccolo Bernardino, che stavano finendo di prepararsi, e poi sarebbero scese in cortile con gli altri.

A Caterina, che pure aveva voluto personalmente delle esequie tanto pompose, sembrava di partecipare a un teatrino inutile, ma sapeva che era fondamentale mostrare alla città l'entità del suo dolore anche a quel modo.

E poi Giacomo avrebbe voluto un funerale in grande stile, con intonazioni di inni sacri e la benedizione di un numero notevole di preti.

Ormai Caterina non poteva fare più nulla per lui, se non quello. Era una misera consolazione, ma era certa che, ovunque fosse il suo Giacomo – sempre che fosse davvero da qualche parte, fosse anche l'inferno – avrebbe accolto con gioia quella premura.

Lucrezia guardava nervosamente la figlia e si chiedeva davvero come stesse riuscendo a stare in piedi dopo così tante ore e così tante fatiche senza aver messo sotto i denti neppure un pezzetto di pane.

Finalmente, accolto da un sospiro di sollievo della giovane Bianca, arrivò dal fondo del corridoio il Governatore di Imola e la sua presenza spezzò per un istante la tensione creatasi tra Caterina e sua madre.

Tommaso non guardò la Contessa nemmeno per sbaglio. C'era qualcosa di diverso, nel suo atteggiamento, dovuto non solo al risentimento per lo scontro avuto con la sua signora nel momento in cui si erano rivisti il giorno addietro.

Caterina comprese molto bene, senza bisogno di spiegazioni, quale fosse il motivo dell'avversione palpabile del cognato.

Nelle ore di isolamento, Tommaso doveva aver ragionato molto su quello che era accaduto e su come la Contessa stesse reagendo alla morte di Giacomo. La conosceva abbastanza bene per comprendere come, oltre al dolore, ci fosse un profondo senso di colpa a guidarla.

La stessa Caterina aveva ammesso con sé stessa e davanti al corpo disfatto del marito che parte, anzi, la maggior parte della colpa fosse proprio sua. Stava a lei difenderlo da pericoli di quel tipo, e invece non c'era riuscita. Aveva sottovalutato segnali macroscopici e aveva negato perfino davanti all'evidenza e alla insistenti preoccupazioni mostrate da Giacomo nel corso degli anni.

Era colpa sua, in definitiva, se quel giorno i preti della chiesa di San Girolamo avrebbero deposto dietro a una lapide i resti dell'uomo che amava.

Così, aspettando le balie con Bernardino, Caterina interpretò ogni gesto spezzato e ogni sguardo di Tommaso rivolto al soffitto o al pavimento come modi per evitare di iniziare con lei una guerra, rinviabile, forse, ma comunque inevitabile, proprio il giorno del funerale del fratello.

"Eccoci..." disse piano una delle due balie che scortavano Bernardino, noto ormai a molto come Carlo.

Il piccolo, che avrebbe compiuto a novembre cinque anni, puntò i grandi occhi verso la madre velata di nero e parve averne parecchia paura.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora