Capitolo 402: Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio

329 29 233
                                    

Cesare Borja camminava a passo lento in una delle stradine più buie di Roma. Teneva il volto in parte celato dal cappuccio del mantello, calato ben bene sulla fronte, benché non facesse freddo.

I suoi passi risuonavano sordi nell'aria immobile di quella notte di giugno e l'unico rumore che gli faceva compagnia era l'incessante scorrere del Tevere alle sue spalle. Anche se non era vicinissimo, il fiume pareva avere una voce abbastanza forte da seguirlo ovunque, quando era nella Città Eterna, quasi a volergli ricordare del momento in cui Pedro Calderon era caduto tra i flutti scuri delle sue acque.

Stringendosi un po' nelle spalle, Cesare virò con sicurezza nel secondo vicolo che incontro e proseguì il suo cammino in modo paziente, come se ogni passo gli servisse per acquietare un po' la tempesta che aveva nel petto.

Stava ripensando da tutto il giorno a quando suo padre aveva saputo dal Vescovo di Volterra che la Sforza non aveva accettato di far sposare Lucrecia al suo primogenito. Il papa era rimasto sorpreso, come un vecchio stupido, come se davvero credesse che una donna del genere avrebbe accettato quella che era chiaramente una trappola.

Cesare, appena Soderini se n'era andato, aveva riproposto al padre di marciare subito sulle terre della Tigre e distruggerla una volta per tutte, cominciando a forgiare l'impero dei Borja proprio dalle sue città.

"Giovane, sciocco e avventato!" aveva esclamato Alessandro VI, scuotendo il capo con decisione e fissandolo con i suoi occhi rapaci: "Attaccare adesso equivarrebbe a entrare in una guerra più grande di noi. Aspettiamo di vedere che succede tra Venezia e Firenze. E aspettiamo di capire da che parte starà re Luigi..."

Citare il nuovo re di Francia aveva scavato per un attimo un solco di preoccupazione sulla fronte del Santo Padre che, con voce più bassa, aveva borbottato tra sé: "E dobbiamo anche scoprire se le parole che il Cardinale Della Rovere gli ha sussurrato all'orecchio per tutti questi anni ce l'hanno reso nemico..."

Al giovane Cesare non importavano tutte quelle finezze politiche. Lui sapeva che una sola cosa governava gli uomini: la paura. Una volta insinuata nell'animo del nemico, lo corrodeva fino a farne una preda facile come un topolino ferito.

Arrivato nella strada che voleva raggiungere fin dal principio, il figlio del papa controllò di avere con sé il denaro, e poi andò con passo più deciso verso il portone della bettola in cui si rintanava quasi ogni sera, negli ultimi giorni.

Quando entrò, chiese subito da bere. Siccome era stato riconosciuto immediatamente, malgrado il volto in parte nascosto, il padrone si affrettò a servirlo.

Posti come quello non sarebbero stati ben visti, se non fosse stato per la chiara protezione del figlio del papa e quindi di suo padre.

Cesare si scolò in rapida successione del vino, della birra e dei liquori, sforzandosi di mettere a tacere la propria testa, che non faceva che suggerirgli cose orribili e piene di rancore.

Quando si sentì abbastanza rintronato da non provare più i sentimenti ingarbugliati che a volte lo portavano a desiderare di prevalere definitivamente su suo padre, il giovane si guardò in giro e puntò il dito verso una ragazza che aspettava vicino al muro: "Lei." ordinò, parlando con il padrone del lupanare: "E lei." aggiunse, scegliendone un'altra, che aveva i capelli d'oro come sua sorella Lucrecia.

Il proprietario della baracca andò a recuperare le due donne e le consegnò al Borja, che, prendendole entrambe per il braccio, iniziò a condurle verso la porta che introduceva alle camere per i clienti. Era quasi deciso ad accontentarsi così, quando l'occhio gli cadde su uno dei ragazzi.

A Roma non erano molto tollerati, gli uomini che lavoravano nei postriboli, ma si chiudeva spesso un occhio - o anche due - quando erano i membri del clero a richiederli.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora