29. Non devi piangere per me, Belle

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Attenzione: in questo capitolo sono presenti contenuti che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori.

"Dove andiamo mamma?"

Il bambino dai grandi occhi blu come un cielo senza stelle osservava sua madre. La donna camminava a passo svelto sul marciapiede di una strada poco affollata. Da come stringeva la manina del bimbo, di poco più di cinque anni, sembrava nervosa.

"Devi avere pazienza piccolo mio."

Si voltò per un attimo a scrutare il suo visino. Gli rivolse un sorriso che avrebbe dovuto essere rassicurante, ma che in realtà risultò tirato e carico di tensione.

Camminarono per interminabili minuti, che al piccolo sembrarono ore. Da quando erano scesi dalla metropolitana non avevano fatto altro che camminare ininterrottamente. Il bimbo strinse la mano libera dentro la tasca del piumino.

"Mamy ti prego sono stanco. Quando arriviamo?"
Piagnucolò lui pregandola con lo sguardo di darle anche solo un misero indizio.
Odiava essere tenuto all'oscuro, proprio lui che era la curiosità fatta persona, lui che amava sapere ogni singolo dettaglio di ogni singola cosa.

"Dev!" lo ammonì lei severa "porta pazienza e non fare i capricci."  Era nervosa e la voce le tremava. E non per il freddo. Questo anche un bimbo di cinque anni, specie se perspicace come lui, riusciva a capirlo.

"I capricci" ripetè lui a voce bassa. Quasi come se parlasse più a se stesso che a lei. I capricci lui non li aveva mai fatti. Mai nella sua breve vita si era lamentato di qualcosa e, in tutta onestà erano diverse le cose di cui avrebbe potuto lagnarsi dato lo stato indigente in cui versavano. Ma i capricci... proprio non li aveva mai fatti. I dispetti sì, soprattutto a quegli strani uomini che andavano a trovare sua madre alle ore più disparate della notte. A loro si che aveva fatto vedere i sorci verdi. Fece spallucce. Non gli piaceva il modo in cui si comportavano con la sua adorata mamma. Però tutte le volte che qualcuno di loro se ne andava dal loro piccolo appartamento sua madre lo sgridava, gli diceva che era grazie a loro se potevano tirare avanti e che lui doveva mostrarsi rispettoso. Lo afferrava per le spalle urlandoglielo contro, ma poi si pentiva. Allora si lasciava ricadere sul vecchio divano e scoppiava a piangere come una bambina. Allargava le braccia e lo metteva a sedere sulle sue gambe. Lo abbracciava forte forte, tanto da togliergli quasi il respiro. E il suo pianto si faceva sempre più intenso, mentre lo cullava e gli sussurrava parole di conforto e d'amore.
Lui dal canto suo le carezzava il viso asciugandole le guance bagnate e sporche di trucco colato.
Funzionava sempre così. Quasi ogni giorno della loro vita. Fino alla sera precedente. Si sentiva in colpa perché sua madre piangeva per colpa sua, ma lui non riusciva proprio a digerire quei tipi loschi che frequentava la sua mamma. Ce n'era uno in particolare, un uomo altissimo con due stretti occhi azzurri, che lui detestava particolarmente.
Andava spesso a trovare la sua mamma, si chiudevano in camera e facevano cose. Mentre lui se ne stava rannicchiato sotto le coperte del suo lettino nella stanza accanto. Si tappava le orecchie con le mani e stringeva forte gli occhi per non sentire. A volte piangeva, altre semplicemente non aveva neppure la forza di farlo.
La sera prima mentre lui cercava di fermare i singhiozzi tappandosi stretta la bocca, aveva sentito quell'uomo orribile urlare alla sua mamma parole di disprezzo. Le aveva anche rinfacciato che era lui che le pagava l'alloggio e che campava sia lei che il suo piccolo bastardo. Poi un tonfo, come il forte schianto di uno schiaffo aveva trapassato l'aria. Ed era stato proprio in quel momento che il piccolo Devlin aveva scalciato lontano le coperte ed era corso come una furia nella minuscola cucina. Sua madre se ne stava di fronte all'uomo, con una mano premuta sulla guancia arrossata. Il bimbo era scattato contro il tipo come una piccola furia. Aveva iniziato a tempestare di pugni la sua gamba e gli aveva urlato di lasciare in pace la sua mamma. L'uomo minimamente scalfito lo aveva afferrato per la maglia del pigiama e lo aveva tirato su come se non pesasse nulla, portando il visino di Devlin all'altezza del suo e con un ghigno terribili gli aveva detto: "tua madre è solo una puttana e tu sei un inutile moccioso.  Una palla al piede. Un piccolo bastardo senza un fottuto padre." Il bimbo aveva scosso forte la testa, mentre scalciava alla cieca con i piedi all'aria e con entrambe le piccole manine su quella del mostro. Scuoteva la testa disperatamente e stringeva gli occhi pieni di lacrime che cercava di tenere a bada.

«No... no non lo sono»

L'uomo rideva.

«Non lo sono!» La risata risuona nella mia testa. Rimbomba nelle pareti del mio cervello.

Il bambino si dimenava e urlava furioso.
L'uomo continuava a ridere.
Il bimbo strinse le labbra, scosse ancora la testa.
Gli occhi blu pieni di lacrime gli annebbiavano la vista. O forse era la rabbia.
Una rabbia che un bambino di quell'età non avrebbe neppure dovuto provare.
Rabbia che un corpicino così minuto non riuscì a contenere oltre.
Una mano scattò sul volto affilato dell'uomo. Le corte unghie del piccolo colpirono e affondarono alla cieca. Graffiarono e scorticarono la sua pelle, intaccando anche il suo occhi destro.
L'uomo smise finalmente di ridere. Il suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore accompagnato da un urlo sordo. Lasciò la presa sulla sua maglia scaraventando il bimbo al suolo. Si portò entrambe le mani all'occhio ferito e pieno di sangue. Urlandogli contro qualsiasi impropero gli venisse in mente.
Finalmente aveva cancellato dal suo volto quel ghigno malefico.
Sua madre impietrita fino a quel momento sembrò riscuotersi dalla paralisi e con gli occhi arrossati e allarmati si affrettò a prendere in braccio il piccolo Devlin e a uscire dell'appartamento prima che l'uomo si riprendesse del tutto.
L'ultima cosa che gli sentirono dire fu che gliel'avrebbero pagata entrambi.

«No... bastardo ti ammazzo con le mie mani!»
Un caldo insopportabile mi punge la pelle impregnata di sudore. Un dolore sordo mi stringe il cuore. Mi sento scuotere con forza.

«Devlin!»

Una donna. È mia madre.

«Mamma» mormoro.

«Devlin, cazzo svegliati! Ti prego.»
Una donna. Ma non è mia madre.

Uno schiaffo potente si abbatte sul mio viso. Strappandomi brutalmente dal vivido incubo in cui ancora una volta sono piombato.
Apro di scatto gli occhi, mettendomi a sedere e prendendo fiato, come se finora fossi stato in uno stato di apnea. Respiro affannosamente e il cuore va a mille. Mi guardo intorno, passo in rassegna la camera. Non è la mia. Due mani delicate si poggiano sulle mie guance e mi scuotono leggermente il capo. Due occhi dorati mi fissano allarmati e pieni di lacrime. Isabelle.

«Dev stai bene?» La sua voce è rauca e trema. È in ginocchio accanto a me. Mi accarezza la fronte tastandone probabilmente la temperatura.

Io annuisco brevemente.

«Sì» rispondo, «ma non chiamarmi Dev. Te ne prego.» La mia voce esce fuori bassa e secca, come la mia gola inaridita.

Lei annuisce a sua volta e senza aggiungere altro si fionda tra le mie braccia accarezzandomi i capelli e scoppiando in un pianto pieno di singhiozzi.

«Che diamine ti prende ragazzina?»

Lei mi risponde con un altro singhiozzo.

«Hai anche il coraggio di chiederlo? Ho avuto paura, dannazione. Hai cominciato a dimenarti e a urlare frasi senza un apparente senso logico.»

Mi spiega col volto ancora schiacciato al mio collo.
Io sospiro pesantemente.
Non avrei dovuto cedere al sonno. Lo sapevo.
Sono stato un fottuto incosciente.
Cosa diamine le dico?

«Adesso è passato, okay? Tranquilla» le dico cercando di adottare un tono di voce rassicurante. Le accarezzo goffamente la schiena, dandole due piccoli colpetti. Non sono proprio un asso nel consolare le persone.
O almeno non lo sono più.
Deglutisco a fatica, la gola è serrata in una morsa d'acciaio.

Lei annuisce e tira su col naso. Sta per ribattere chissà cosa, ma io la precedo.

«Ho sete. Ti spiacerebbe darmi un po' d'acqua?»

Lei si scosta da me, i suoi occhi gonfi e arrossati dal pianto si fissano sui miei per qualche attimo.
E sono proprio quest'espressione così  addolorata e questi occhi così dolci e preoccupati che fanno scattare qualcosa in me. Uno strano meccanismo, come una molla proprio lì, all'altezza del petto.
Allungo un braccio verso il suo visetto e con i pollici raccolgo le lacrime formatesi sotto gli occhi, asciugandole con una delicatezza che non credevo neppure di possedere.

«Non devi piangere per me, Belle. Mai. Non devi farlo mai.»

Mia per vendettaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora