SEI

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«Il fatto che conosca il tuo nome non significa necessariamente che conosca anche il tuo passato.» mi rassicura mia madre, accarezzandomi la schiena.

«E cos'altro può significare?» domando, la voce roca per il pianto.

«Sai, tesoro, sul tuo fascicolo scolastico è segnato anche il cambio di nome. Quel ragazzo, magari mosso dalla curiosità di scoprire qualcosa su di te, ha trovato il modo di dargli un'occhiata.»

«E cosa lo fermerà, secondo te, dal digitare il mio vero nome al computer? Sai, mamma, tutti gli altri dispongono di un maledettissimo accesso a Internet!» sbotto, lanciandole addosso tutta la mia rabbia, tutta la mia frustrazione. Tutto il mio dolore.

Il suo viso si dipinge di una smorfia sofferente, come se prendesse per la prima volta atto del fatto che niente e nessuno potrà mai cancellare il mio passato o anche solo proteggermi da esso. Nemmeno lei.

«Pensavamo che avrebbe potuto aiutarti. Magari avresti evitato la tentazione di...»

«Di cosa, mamma?» urlo alzandomi in piedi «Sai che vuol dire alzarsi ogni mattina e dimenticare, anche solo per un attimo, che sarà una nuova giornata passata a recitare la vita di questa Dahlia che neanche conosco?»

Mr Dunky, disturbato delle mie grida, apre gli occhietti e sbadiglia infastidito. Un gatto che si stiracchia: unico attimo di normalità in una vita totalmente folle e insensata.

«Sono di nuovo Melanie. Poi ecco, di colpo, mi ricordo che non lo sono affatto. Sai cosa significa avere anche paura di pronunciare il mio vecchio nome? Sa di sporco. E suona strano nella mia bocca, tanto che la lingua quasi si rifiuta di sputarlo fuori. Forse, invece, voglio che tutti vengano a sapere la verità. Almeno potrei finalmente smettere di nascondermi e di scappare.»

Non è vero, non lo voglio. Ma desidero ferirla, desidero che provi un briciolo del dolore che provo ogni giorno, ogni ora, ogni secondo.

Chiaro e scorretto atteggiamento da figlia egoista, lo so. E, al contrario di quel che credevo, non mi fa stare affatto meglio.

Gli occhi di mia madre si induriscono, insieme ai lineamenti contratti dal dispiacere «Non c'è bisogno che mi vomiti addosso la tua frustrazione. Tu non te ne rendi conto, ma io sono tua madre e in quanto tale sento sulla mia pelle ogni tuo dolore. E non mi importa cosa pensa la gente, non sei la persona che credono. Non sei la persona che tu stessa credi di essere. E sai perché lo so? Perché sono stata io a partorirti e non esisterà mai al mondo una persona che ti ami più di quanto ti amo io. Quindi vaffanculo a Melanie e vaffanculo a Dahlia. Tu sei esattamente chi sei, non importa come ti chiami».

Mi lascio cadere sul letto e lei si fionda accanto a me, pronta a stringermi tra le sue braccia che vorrebbero proteggermi dal mondo ma che, di fatto, non possono fare altro che abbracciarmi.

«Scusami...» sussurro tra le lacrime.

Ci addormentiamo abbracciate, vestite, con gli occhi tirati dalle troppe lacrime e il cuore colmo della consapevolezza che, qualsiasi cosa possa mai ancora accadere, lei sarà sempre pronta a tenermi in piedi con il mento alto.

Mi sveglio a notte fonda. Mia madre respira profondamente solleticandomi il collo. Le sposto il braccio e scivolo via dal letto. Frugo in fretta nella tasca dello zaino e trovo subito la chiave originale, che sostituisco con quella che nascondo nella tasca dei pantaloni.

In punta di piedi esco dalla mia stanza, attenta a non produrre il minimo rumore. Sposto una fotografia  che mi ritrae in fasce, sdentata e sorridente, appesa alla parete in corridoio. Trovo la piccola rientranza, come una minuscola caverna nella pietra, e ripongo la chiave al suo interno.

Quando rientro nella stanza ho il cuore che mi martella in gola. Ma mia madre non si è spostata di un millimetro e il suo respiro è ancora regolare.

Guardo fuori dalla vetrata e lì, nello stesso punto dell'ultima volta, vedo il lupo dagli occhi ambrati.

Sbatte le palpebre e poi volta la testa per ululare alla luna innevata.

TOTEMDove le storie prendono vita. Scoprilo ora