XXXI

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Un morbido manto di neve. Almeno un metro, questo è certo. E in queste condizioni, neanche il paese più attrezzato ha gli strumenti adatti a consentire che le normali attività si svolgano senza problemi; tipo la scuola. O almeno spero.

Mr Dunky si crogiola nella trapunta di lana a lui riservata: si sdraia sulla schiena, allunga le zampe anteriori allargando gli artigli affilati e conclude l'esibizione con un soddisfacente sbadiglio. Porto la mano alla sua pancia bianca e morbida come il velluto, morbida come la neve.

«Dahlia!» mi chiama mia madre dal piano inferiore.

Sembra quasi strano sentirle nominare quel nome: sa di finto, di bugia, di costruzione. Sembra che abbia una sua consistenza, come se faticasse a pronunciarlo, quasi avesse la bocca impastata dal burro d'arachidi.

Ma è così che mi chiamo. Ora.

Scendo le scale non preoccupandomi di liberarmi del pigiama. Anzi, mi avvolgo addirittura con la spessa coperta di pile.

«Non ti vesti?» domanda alzando un sopracciglio intanto che fa girare in aria la frittella nella padella.

«Hai visto fuori, vero?» rispondo indicando la finestra, la voce ovattata dagli spessi strati di coperte, «Ci saranno almeno due metri di neve!»

«E allora? Viviamo in un paesino...»

«...di montagna e qui sono abituati e attrezzati per ogni evenienza.» concludo, alzando gli occhi al cielo, «Ma non vorrai davvero che vada a scuola con questo freddo, giusto?»

«Tuo padre non ne sarà contento...» risponde, intanto che riflette sul da farsi, «Però un modo per convincerlo a lasciarti restare a casa ci sarebbe...» ecco che, all'improvviso, compare il suo sorriso sornione.

«Sei inquietante. Lo sai, mamma?» dico, nascondendole un sorriso dietro la trapunta, «Quale sarebbe?»

«Beh, in effetti la neve è un bel problema. I servizi pubblici non si occupano di ripulire gli ambienti privati, quindi...»

«Quindi dovrei spalare tutta quella neve?» protesto, cercando di gesticolare energicamente sotto tutti gli strati di tessuto.

«E potresti anche avere un fantastica, meravigliosa, dolcissima cioccolata calda quando avrai finito.» aggiunge allargando le braccia dall'entusiasmo.

«Ma andiamo!»

«Beh, fai ancora in tempo a prepararti per andare a scuola.» conclude leccando il cucchiaio sporco di marmellata.

Venti minuti dopo, sono in mezzo alla neve imbardata come un eschimese. La vanga in mano e i moon-boots ai piedi. Sbuffo ad ogni spalata e borbotto qualcosa di incomprensibile perfino a me stessa. Amo il gelo, certo: ma visto dalla finestra della mia calda, caldissima camera.

L'aria odora di ghiaccio e di pino, il cielo è ancora una densa macchia bianca che minaccia dispettosamente una nuova bufera, e l'unico suono udibile è il gocciare di un paio di stalattiti formatesi sulle grondaie di casa.

Ad ogni affondo della vanga si sente lo scrocchiare soddisfacente del ghiaccio. Guardando i metri di candida, lucente, fitta neve al suolo, si può pensare che sia morbida e accogliente. In realtà, ad ogni passo, si percepisce la sua durezza e freddezza. La neve è una bugia, inganna, illude. Come le nuvole, che sembrano spessi soffici cuscini di zucchero filato. Come Dahlia, come il mio nome.

Quel pensiero mi irrigidisce. Negli ultimi giorni il sentirmi sull'orlo di una crisi, il sentirmi spaesata nella mia stessa pelle, è diventato qualcosa di estremamente occasionale. Forse è proprio per questo che, ogni volta che accade di nuovo, mi sembra impossibile da superare. Tutta questione di abitudine.

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