Sessantuno

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La piccola camera degli ospiti al piano di sotto, odora di cartone per via di tutti i pacchi maldestramente imballati. Mr Dunky se n'è rimasto sulla sua preziosa coperta davanti alla bella vetrata che mi è stata categoricamente vietata, io ho dormito per alcune notti sul divano letto in questa anonima stanza.

Niente più camera che affaccia sulla profonda gola nera, niente più notti ad aspettare l'arrivo di Akil, niente più tentazioni di saltare giù.

«Tesoro?» bussa mia madre alla piccola porta di legno, «Cosa posso portare nel furgone?» domanda, guardando le decine di scatole chiuse con lo scotch alla bene e meglio.

Sono passate due settimane da quando mia madre mi ha salvata, Akil è rimasto nascosto nell'ombra e io ho finalmente capito che restare qui, dove una macabra assassina non aspetta altro che divorarmi, non ha più senso.

Anche perché solo l'odore di foresta che entra dalla piccola finestra al primo piano, mi crea una fitta tanto dolorosa che il mio cuore si contorce su se stesso supplicando pietà.

Lascio in questa meravigliosa casa in mezzo agli alberi tanti, forse anche troppi, rimpianti. Mi spiace abbandonare Adham in quell'ospedale, solo, senza altra compagnia che quel bastardo cronico di Leonida; mi spiace dover tagliare il cordone ombelicale che mi collega a questa natura splendida e crudele al tempo spesso; mi spiace non aver approfittato dell'intensità di questi mesi per uccidere il mostro della vecchia Dahlia, di Melanie, che ancora oggi mi graffia le pareti della gola nell'atroce tentativo di uscire fuori in un urlo; mi spiace dover riporre le mie ali; mi spiace non poterlo salutare.

Nuova casa, nuova vita, nuova Dahlia.

«Quelle lì.» indico un paio di grosse buste di nylon piene di libri.

In queste ultime due settimane ho prudentemente parlato il meno possibile, giusto lo stretto necessario. La voce mi si rompe sulle labbra perfino quando comunico con il mio riflesso allo specchio. Non c'è nulla da fare, mi sembra quasi di lasciare qui una parte di me, come un braccio o una gamba. E forse è proprio così.

Mi siedo sullo scatolone contenente tutti i miei CD di musica rock comprati quando volevo far credere al mondo d'essere una ribelle. Mi guardo intorno sbuffando, torri di cartone ondeggiano in bilico, quasi vogliano crollare a terra per concedermi ancora un po' di tempo tra le braccia di questo posto. Mi sembra quasi di lasciare una sorella, di seppellirla e di abbandonare la sua tomba. È proprio vero quel che dice la scienza: il dolore di un trasloco, spesso e volentieri, può essere paragonato a quello di un lutto.

E allo sarò in lutto. Mi vestirò di nero, piangerò lacrime nere, respirerò fumo nero. Forse farmi inglobare dall'oscurità può aiutarmi a credere che si sia trattato solo di un sogno: Akil non esiste, è solo una creazione della mia mente. E questo vorrebbe dire che non mi sto affatto separando da lui, perché vive e si nutre nella mia testa. Ma basta buttare un occhio alla finestra, guardare le splendide cime innevate che mi salutano illuminate dall'ultimo raggio di sole della giornata, per capire che non potrò mai cancellare questa vita dal mio cuore.

«Dahlia, aiutaci a caricare la roba!» mi chiama mio padre, palesemente affaticato da quella gamba ormai morta e attaccata gelosamente alla sua anca.

«Arrivo.»

Afferro un paio di scatoloni pieni di vestiti, scivolo via dalla camera degli ospiti e mi godo ogni dettaglio delle mura bianchissime di questa casa ormai spoglia. La cucina è solo uno scheletro, il salotto è solo una stanza vuota, l'intera casa è solo un'impalcatura anonima.

Il grande camion che porta la scritta della ditta dalla quale lo abbiamo affittato, è parcheggiato proprio al centro del vialetto. Carico la mia roba, pacco dopo pacco, fino a quando non rimangono che pochi contenitori.

«Torno subito.» avverto, «Voglio stare qualche istante nella mia stanza. Un'ultima volta.»

Mia madre mi sfodera un sorriso che nasconde sia comprensione che timore e annuisce debolmente.

Non ci metto troppo a salire tutti gli scalini, mi prendo tutto il tempo che serve e anche di più.

Sfioro le pareti beige del corridoio, non più decorate dalle foto di una famiglia felice. La moquette chiara attutisce il rumore dei miei passi, lenti e strascicati, che mi portano di fronte alla porta in legno scuro, forse noce. Lo scatto della maniglia: la mia stanza dalle pareti calde, il segno più chiaro nel punto in cui si trovavano i mobili. Il letto è sparito, così come la scrivania, l'armadio, la libreria, la traccia del mio odore. Perfino Mr Dunky l'ha finalmente abbandonata e riposa tranquillo nel trasportino sul sedile posteriore della macchina.

L'unico segno del mio passaggio, è quella macchia scura di sangue sulla moquette. Se mi sfioro la spalla riesco a sentire la cicatrice ancora fresca di quando mi sono scavata la carne col taglierino per consentire ad Akil di estrarre il proiettile. Le scapole, invece, pulsano ricordandomi violentemente che un tempo ho posseduto delle vere e proprie ali.

Mi avvicino alla vetrata e la sfioro con un polpastrello, traccio una linea invisibile, una linea verticale, una linea che nasconde dietro la sua banalità il simbolo di una caduta.

Poi, quando finalmente trovo il coraggio, abbandono il mio riflesso sbiadito e metto a fuoco il paesaggio che non aspetta altro che le mie attenzioni. Gli alberi, alcuni di un verde intenso mentre altri di un colore più chiaro, azzurrino, forse verde acqua. Le nuvole cineree che avvertano dell'arrivo di nuove piogge. Riesco a sentire il gorgogliare furioso dell'acqua: appena arrivata credevo fosse il canto di un fiume, oggi so che si tratta di una cascata che precipita nell'esteso lago a qualche chilometro da qui. Apro la vetrata e lascio che l'aria fresca innondi la stanza, che colmi l'apnea, come se fino a questo istante fossi stata sottovuoto. Il profumo di pino e abete mi si infiltra direttamente nei polmoni e ne incide la sua traccia indelebile. La cosa più bella, comunque, resta guardare giù nella gola dello strapiombo, nella mia profonda gola nera. Infondo, sono affezionata anche ai suoi traumatici canti sirenici. Vorrei potermi lanciare, spiegare le mie ali e atterrare sul suolo umido, dove posso sentire la terra sotto gli artigli nella mia tenace corsa coi lupi.

Akil, continuo dolorosamente a pensare.

L'idea della sua bocca morbida, dei suoi occhi magnetici, dei suoi capelli come filamenti d'oro, si accompagna ad un atroce dolore al braccio.

«Ah!» gemo di sofferenza.

Alzo la manica del maglione fino al gomito e scopro una ferita sanguinante.

Sono... sono lettere, penso osservando terrificata la scritta di sangue che mi si sta formando sull'avambraccio.

Prima una A quasi accennata, poi una I, poi una U.

«AIUTO.» leggo.

Akil, penso.

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