Cinquantatré

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Apro la finestra giusto in tempo. Akil si fionda nel sottile spiraglio e ruzzola a terra. Si contorce, perde qualche piuma e, in un urlo strozzato, torna alla sua forma umana.
Ansima per il dolore, per il volo, per lo spavento.

«Quel bastardo!» grugnisce.

È la prima volta che lo sento dire una parolaccia.  Nella sua bocca sa di sbagliato. Non è bigottismo, il mio; qualche parolaccia suona anche bene, ma detta da lui è come sentirla ripete da un bambino.

«Leonida.» spiega, tirandosi a sedere, «Oggi aveva il turno di guardia.»

«Non importa,» cerco di calmarlo, «sei arrivato tu.»

«E se non avessi fatto in tempo?» sbotta, chiaramente in ansia.

«Avresti fatto in tempo, Akil.» dico, seria, «Non ti allarmare.»

«Hai visto cosa ha fatto Eva a tuo padre, vero?» inizia, il tono di un rimprovero, «O anche a tutta quella gente dei volantini. È pericolosa, Dahl.»

«E perché lo dici a me?»

«Come?» domanda, confuso.

«Perché lo dici a me?» ripeto, «Non sono io che ti ho chiesto di dividere i "turni"» mimo le virgolette in aria, «con Leonida. Sei stato tu a fidarti di lui, non io.»

«Sì, quindi che vorresti dire?» chiede, irritato.

«Non voglio dire nulla. Mi chiedo solo perché te la stia prendendo con me.» confesso, ferita.

Akil abbassa lo sguardo consapevole dell'errore. Si passa una mano tra i capelli e scuote la testa a mimare un "no".

«Non è questo il punto.» la testa chinata in avanti e i capelli a coprirgli buona parte del viso.
Intravedo la linea dura del suo sguardo e, senza neanche dargli il tempo di esprimere quel pensiero che ormai si è proiettato in aria, mi alzo meccanicamente con fare minaccioso.

«No. Scordatelo.» ringhio.

«Sii ragionevole, sai che non smetterà di darti la caccia.»

«Non ho... non ho...» balbetto, troppo concentrata a cercare di assimilare l'idea, «Non ho intenzione di trasferirmi di nuovo, Akil.»

Akil sorride e punta i suoi occhi topazio nei miei: «Come hai fatto a capire cosa stavo pensando?»

«Ti sembra il momento di scherzare?» sbotto, frantumando il suo tentativo di alleggerire la conversazione, «Non me ne vado di qui, non lascio la mia casa.»

«Dahl, riflettici un secondo: succederà ancora. E ancora, ancora, ancora. Non si fermerà mai.»

«La combatteremo.» tento, la voce debole.

«Non posso costringerti a fare nulla, e non lo farei neanche se potessi.» mi afferra la mano e la stringe tra le sue, calde e forti.

«Non posso lasciare questo posto. Guarda,» dico indicando il paesaggio aldilà della finestra, «non voglio svegliarmi in un'anonima casa di città che affaccia sul cartello pubblicitario di una modella di intimo col culo di fuori.» dico tutto d'un fiato, rubandogli una risata.

«Questo non è mica l'unico bel posto esistente sulla faccia della Terra.» azzarda, consapevole lui stesso della debolezza dell'argomentazione.

«Vuoi proprio che lo dica, eh?» sbotto, irritata. «D'accordo, va bene. Tu non puoi lasciare questi luoghi, e io non posso lasciare te.»

«Prima o poi dovrà succedere.» il suo sguardo torna serio, conscio di aver trovato l'arma per combattere questa battaglia.

No, non di nuovo con quel discorso...

«Smettila, non dirlo.» scatto, tappandomi le orecchie infischiandomene dell'atteggiamento infantile.

«È una realtà, Dahlia. Affrontala.» insiste spostandomi le mani dalle orecchie affinché possa sentirlo, «Affrontiamola insieme. Ora.»

«No.»

«Devi lasciare questo posto. Vai lontano, cambia aria. Salvati.» tenta, quasi in una supplica.

«No.»

«E cosa vuoi che ti dica adesso?» domanda, frustrato e spazientito, «"D'accordo, io ci ho provato"? No, mi spiace, ma non farò finta che mi stia bene.»

«Mi stai cacciando?» sibilo.

«Ti sto salvando.» corregge, assottigliando la fessura degli occhi.

«Non mi salvi se mi allontani da te.» sento le lacrime pizzicarmi gli  angoli degli occhi, «Mi uccidi!»

«Dahl, è questo il tuo problema.» dice stringendomi le spalle con premura, «Non ti basti, non sei il centro del tuo mondo. Come pensi di poter stare bene all'interno di una società se non stai bene innanzitutto con te stessa?»

Zitto!

«Devi farci i conti, devi affrontarti.» continua, «Prima o poi dovrai smettere di avere bisogno di me. E perché non ora? Vai via di qui, lascia questo posto. Ti prego.»

«Non voglio smettere di aver bisogno di te...» sussurro per impedire alla mia voce di rompersi.

«Lo voglio io.» mi regala un sorriso pieno di dolcezza, «Voglio vederti felice, soddisfatta, forte, intraprendente.»

«Posso esserlo con te al mio fianco.»

«No, non puoi. Io sono un Totem, sai cosa significo.» mi accarezza la guancia e fa scorrere il pollice sulle mie labbra bagnate di lacrime.

«Qual è il problema, eh?» scatto, improvvisamente colta da un attacco d'ira ingiustificata, «Hai paura di Eva? Pensi di non riuscire ad adempiere al tuo compito?»

So che non è così. So benissimo che non è così.

Ti prego, non allontanarmi da te.

«Non farò finta che mi stia bene.» dice, la voce dura e profonda, «Non metterò il tuo amore per me davanti al mio di amore per te. E scusami se ti sembro egoista, ma è tutt'altro che questo.» percepisco tutta la sofferenza della sua voce come un pugno alla bocca dello stomaco.

Salta giù dalla finestra e plana atterrando tra i tronchi di due imponenti pini.
Qualche secondo più tardi, due occhi d'ambra sono puntati sulla mia finestra. Abbasso la tapparella grigia per la prima volta da quando ho messo piede in questa casa, nell'ostinata intenzione di impedirgli di farmi sentire sorvegliata. Per la prima volta mi sento troppo stretta.

Raccolgo una piuma bruna dalla moquette e mi metto a letto. Me la rigiro tra le mani, l'annuso e mi lascio trasportare dai ricordi. Fingo di trovarmi seduta sulla panchina fuori dalla scuola, fingo di vedere di nuovo per la prima volta un'aquila osservarmi dall'alto del suo ramo.

Ripongo la piuma sotto al cuscino e mi addormento.

Il cuore pesante come il giorno in cui sono arrivata.

TOTEMDove le storie prendono vita. Scoprilo ora