XIX

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Vivo esattamente sul lato della strada che mi separa dalla boscaglia più fitta. I vecchi proprietari della casa avevano deciso di traslocare proprio perché trovavano inquietante l'idea dell'ignoto. Erano spaventati dalla foresta che circonda la casa, dalla profonda gola nera aldilà della mia vetrata, dall'ululato del lupo nel bel mezzo di un tramonto. Io, invece, ne sono affascinata.

Osservo la via, la casa e anche la foresta, cercando di costruire una vita che non ho vissuto. Provo a immaginarmi a cinque anni sulla mia prima bicicletta senza rotelle: mio padre in fondo al vialetto ad evitarmi di finire per strada, i sonagli sui manici e le ginocchia perennemente sbucciate. Costruisco una vita normale che esiste solo in un'altra realtà; e magari nell'altra realtà Melanie è ancora Melanie e da questo paradiso terrestre si è trasferita in città. Respira smog e vive di perenne confusione, entusiasta della novità del caotico.

Approfitto dell'ultima giornata di sole tiepido prima che le temperature calino nuovamente sotto lo zero. Indosso il mio pigiama di flanella, una sciarpa, un berretto e un paio di soffici pantofole ai piedi. Seduta sulla sedia a dondolo sul portico, finisco di leggere le ultime pagine de I dolori del giovane Werther, una copia nuova presa giusto ieri nella piccola libreria dietro l'angolo della scuola.

"Certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa."

Forse, se avessi letto questa frase prima di arrivare qui, ora non starei osservando l'ondeggiare del raggruppamento di faggi ormai quasi totalmente spogli. Ai loro piedi, un tappeto di foglie dalle sfumature rosse e arancio.

Chiudo d'impeto il libro e lo lascio scivolare a terra. Ispeziono la mano recisa del taglio osservando la ferita ancora rossa e pulsante, per poi chiudere il pugno in una stretta dolorosa.

Meccanicamente, alzo lo sguardo attratta da qualcosa. Percepisco un frusciare aldilà dei faggi e, subito dopo, mi accorgo di un movimento poco più in là del margine della strada. Mi tiro in piedi non appena noto un minuscolo, significante dettaglio: nell'ombra, un paio di occhi brillanti.

È stato solo un attimo, una scintilla luminosa in grado di riflettere tutti i colori del paesaggio: il giallo delle foglie, il verde dei cespugli, il blu del cielo.

Senza neanche darmi il tempo di riflettere, mi fiondo lungo il vialetto, attraverso la strada e mi lascio immergere –inglobaredall'occultezza della foresta.

Seguo la scia tra le foglie sperando che mi conduca da lui.

È Akil, ne sono certa.

Tutte le domande che avrei voluto fargli il giorno della biblioteca, riprendono ad emergere con insistenza. Il cuore scalpita abbastanza forte perché si senta l'eco di ogni battito in tutta la selva e, per qualche secondo, pulsiamo insieme.

Seguo la traccia ancora per un po' e finisco col trovarmi nel bel mezzo di una radura rosso sangue. Lo spiazzo ovale circondato dagli alberi spogli tra i quali si dirada una nebbia sottile; le foglie scarlatte cadute a terra in un tappeto lugubre e raccapricciante; l'assenza di qualsiasi suono, perfino del mio stesso respiro.

Mi volto, intenta a recuperare la via per tornare indietro, ma ogni sentiero sembra diverso da quello che mi ha condotta fin qui. Giro su me stessa più volte, ancora e ancora, fino a quando non perdo l'equilibrio e cado a terra.

«Akil!» urlo disperatamente, sperando che siano i suoi gli occhi scintillanti che mi hanno attratta fin qui.

Sento la testa vorticare, girare insistentemente come una giostra. Guardo in alto: una macchia di celo incorniciata dalle punte aguzze dei faggi spogli e malefici nella loro semplicità. Questi sembrano crescere a dismisura, inclinarsi verso il centro, incastrandosi tra loro e, inevitabilmente, imprigionandomi in quello spiazzo minaccioso.

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