Quarantasette

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Spingo l'asettica porta di plastica bianca e mi lascio accogliere dal sorriso addolorato di mio padre. Indossa una camicia da notte verde, un tubicino trasparente sotto il naso, la flebo al braccio, ed enormi macchinari collegati al petto tramite delle ventose.

La gamba è nascosta sotto strati e strati di garza, sembra quasi impossibile che ne sia stata mangiata metà.

«Ehi, papà.» dico, non riuscendo a contenere il tremore.

«Piccola mia.» risponde debolmente allargando le braccia, «Vieni qui.»

Mi fiondo accanto al suo letto e mi sdraio con metà busto tra le sue braccia. Trattengo il fiato nei polmoni, certa che in questo modo possa impedire al petto di contrarsi in violenti singhiozzi. Muovo i bulbi oculari in tutte le direzioni, sperando di riuscire a far riassorbire le lacrime.

«Amore di papà.» sussurra, annusando i capelli e stringendomi a lui.

E in quel momento mi rendo conto di cosa abbia provato: un dolore tale da strapparsi il cuore dal petto.

Scusami, dico mentalmente.

«Ti voglio bene.» risponde.

Mi madre si unisce all'abbraccio e per qualche minuto rimaniamo così: una scultura di dolore e tristezza, di amore e riconciliazione.

Ci tiriamo su di scatto quando la porta della stanza viene spalancata in malo modo.

Il poliziotto che ha sparato ad Akil scivola nella stanza sfoggiando un sorriso viscido e arrogante: «Ah, c'è tutta la famigliola, vedo!» esordisce tenendo i suoi corti e gonfi pollici nei passanti della cintura.

«Capo,» saluta mio padre alzando una mano, «come vanno le cose?»

«A me bene, a te invece... un po' meno, vedo.»

Ma la smette di dire "vedo"?

«Eh, dicono che non riuscirò a recuperarne l'uso.» risponde debolmente, tastandosi la spessa fasciatura.

«Hai sempre l'altra, no?» il poliziotto ride e la sua enorme faccia assume le sembianze di un palloncino viola con i baffi.

Brutto bastardo.

«Già.» lo asseconda mio padre nascondendo il disagio dietro un sorriso, «A cosa devo la tua visita?» tenta di tagliare corto.

«Mi serve la tua versione dei fatti.» dice sfilando un taccuino dalla tasca posteriore dei pantaloni, «Sai, con tutte queste sparizioni, al commissariato pretendono la denuncia per ogni aggressione. Fesserie, dico io. Quella gente scompare perché vuole scomparire.» si porta il beccuccio della penna sotto l'occhio come a dire "la so lunga, io!".

«Ah sì?» domando, stizzita.

«Si, signorina.» risponde facendomi il verso.

«Allora mi dica, Capo: che motivo avrebbe avuto una bambina di quattro anni di sparire?» chiedo, ricordando il volantino raffigurante la bambina dai capelli rossi.

«Beh, ecco...» borbotta, non sapendo come argomentare, «Ma che vuoi saperne tu? Lascia queste faccende ai grandi.» risponde gesticolando nervosamente con la mano nell'intento di far declinare l'argomento.

Coglione.

«La prego.» interviene mia madre, con stizza.

«Mh, sì. Dicevamo:» riprende, diventando ancora più rosso per l'imbarazzo, «cosa è successo?»

«Non lo so, non ricordo nulla. Ricordo solo che poco prima di scendere dall'auto, mia figlia mi ha avvertito di restarmene seduto. Ma non ho voluto darle retta. Poi ricordo d'essere caduto a terra e un dolore lancinante alla gamba.» dice, gli occhi bassi nella concentrazione del ricordare.

Ripercorro velocemente l'intera scena: mio padre a terra, Eva che strappa la carne dal polpaccio morso dopo morso, io che non riesco a muovermi, Akil e Leonida in aiuto.

Quando rialzo lo sguardo, scopro che mi stanno fissando: «Ecco...» comincio, «Mi ero accorta del serpente, lo stesso che aveva provato ad aggredirmi a scuola tempo fa. Avevo paura che ci avesse raggiunto, così ho pregato mio padre di restare in macchina. Quando sono scesa in suo soccorso lei... lei...».

«Lei? Una serpe, dice?» appunta il poliziotto, «E come fa a dire che si trattava di una femmina?»

«Non so, un'impressione.» rispondo in fretta.

«Beh, non importa, non si tratta dell'aggressione di un serpente.»

«Scusi?» domando, esterrefatta.

«Mi dica, signorina Leiden,» dice, imitando il mio tono di poco prima, «lo sapeva che i serpenti non strappano la carne? I serpenti ingoiano le prede per intero.»

«Sta insinuando che io stia mentendo? Perché dovrei dire una bugia?»

«Dillo tu a me.» incrocia le braccia dietro la schiena e si sporge verso di me, «Non vorrai mica proteggere quel lupetto che ti piaceva tanto, vero?»

Brutto figlio di puttana.

Il poliziotto appunta la propria versione dei fatti e si allontana con strafottenza.

«So quello che ho visto. E non si trattava di un lupo.» dico, una volta rimasti soli.

«Ti crediamo tesoro.» interviene mia madre, circondandoli le spalle con un braccio, «Ma lupo o serpente che sia, credo che questo non sia più un luogo sicuro per noi.»

Cosa?

«Sono d'accordo.» conviene mio padre.

No, io no!

«Abbiamo tempo per pensarci.» conclude mia madre, alludendo alla lunga convalescenza ospedaliera che dovremmo affrontare.

Mi costringo a sorridere, un sorriso tirato, mentre il ritmo del mio cuore viene proiettato al di sopra del manto verde che ricopre le montagne, pulsando insieme ad ogni respiro di quella foresta che non voglio abbandonare.

Ritmando fomentato dall'ocra dei suoi occhi che non voglio abbandonare.

TOTEMDove le storie prendono vita. Scoprilo ora