Quarantanove

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Adham...

«Ciao... ciao papà. Come ti senti?» domando incertamente, stringendo tra le dita il laccio del mio casco a scodella.

Il suo enorme faccione è quasi interamente fasciato da garze sporche di sangue. Mi fissa da quel suo occhio nero dalla sclera scarlatta; l'altro è coperto da una benda oculistica.
I tagli infertigli da Leonida faticano a rimarginarsi.

Resto impalato sulla porta, troppo intimidito per riuscire a muovere un passo. Mia madre mi spinge con rabbia, borbottando qualche insulto.

«Non far finta di niente, ragazzo.» dice lui, la voce rauca e la bocca impastata.

«Non so di che parli.»

«Quella Santa di tua madre mi ha detto la verità. Tanto valeva che me ne parlasse qui, con un equipe medica pronta a soccorrermi» inizia.

Le orecchie prendono a ronzarmi, è un riflesso involontario che si presenta ogni qualvolta le cose si mettono male. È iniziato tutto circa dieci anni fa. Ero un solo un bambino, stavo giocando nell'armadio di mia madre: abbracciavo i suoi vestiti, mi accarezzavo sulla guancia con le maniche flosce, prive di consistenza. Cercavo una mamma, niente di più. Ed ecco che mio padre torna dal lavoro e mi trova a trafficare con dei vestiti da donna; ecco che mio padre mi colpisce con un ceffone in pieno orecchio. Sono rimasto sdraiato a terra per ore, per fortuna il ronzio sordo mi ha impedito di assimilare tutti gli insulti che ne erano seguiti.

Cercavo solo una mamma.

«Non ti vergogni?» domanda, il disprezzo espresso da ogni singola ruga del suo viso.

«No.» rispondo fieramente, sorpreso io stesso del moto di coraggio.

«Beh, dovresti! Sei uno screanzato, un pervertito, un maniaco!» m'insulta mia madre colpendomi alla schiena con la propria borsetta di cuoio.

«No.» insisto, il tono basso ma la voce ferma e decisa. Affatto spaventata, finalmente.

Guardo le due persone davanti a me e vedo solo degli estranei, vedo la rabbia e l'odio, vedo l'errore che sono stato per loro. Vedo lo sprezzo.

«Cos'è che ti piace, succhia cazzi?» mi provoca mio padre, «Ti piace farti sodomizzare, schifoso di un porco?»

Mia madre ghigna ad ogni parola del suo amato, amatissimo marito. Mi guarda negli occhi ma non mi vede, non mi trova. Non mi cerca neppure.

«Una cosa che mi piace ci sarebbe. Volete saperla?» sorrido, «Mi piacerebbe vedervi morti. Mi piacerebbe strozzarvi, mi piacerebbe concedervi il lusso della ragione solo per qualche istante, giusto il tempo necessario perché voi riusciate a capire lo schifo di persone che siete.»

Non tremo, non balbetto, non mi mangio le parole. Sono forte, un cuore distrutto ma comunque forte. Forse per la prima volta.

Mio padre si porta la mano all'altezza del pacco e stringe: «Vorresti ciucciarlo, eh? È questo che provi quando vedi un uomo?» dice, scoprendo i denti.

No, ogni volta che vedo un uomo, vedo il tuo faccione contratto dalla rabbia, vedo le tue enormi mani, vedo i tuoi calci.

«Mi vergogno per te. Per voi.» dico, il pomo d'Adamo che si muove su e giù caricando la scarica di pianto che arriverà tra poco.

«Tu non sei nostro figlio. Non farti vedere mai più.» ringhia lui, immobile come un giudice nel suo letto.

Mi in filo il casco ed esco dalla stanza d'ospedale che gli auguro di non lasciare mai. Gli auguro ogni male, ogni dolore e sofferenza.

Schivo i medici e gli infermieri che ridono tra loro con bicchieri di carta ricolmi di caffè nelle mani, ignoro i pazienti in sala d'attesa che mi osservano con curiosità e pensano cose tipo "poverino, chissà chi gli è morto".

I miei genitori. Sono morti i miei genitori.

Quando esco dall'ospedale è ormai buio. Salgo in groppa al mio motorino e giro nervosamente la manopola del gas. Schizzo sulle strade ghiacciate non curandomi d'esser prudente.

Grido, urlo. Le lacrime mi si cristallizzano sulle guance e spero che questo freddo mi cristallizzi il cuore. Il cuore, lo stomaco e il cervello.

Corro a casa, riempio una vecchia valigia dei miei pochi averi e mi rimetto alla guida. So dove andare, spero solo di poter restare.

Le stradine curve in salita accolgono le ruote del mio motorino con conforto, decise a non lasciarmi scivolare all'indietro. Imbocco il vialetto sulla destra e, pochi metri più avanti, parcheggio lasciandolo cadere a terra. Il brecciolino scricchiola sotto il peso della ferraglia.

Guardo in alto: i raggi argenti della luna, una madre che non abbandona mai la sua Terra, illumina le lettere superstiti dell'insegna. La C, la M e la A sembrano salutarmi, sembrano invitarmi nell'utero della propria dimora.

Ed io, senza neanche bussare, entro.

TOTEMDove le storie prendono vita. Scoprilo ora