Cinquantacinque

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Adham...

Dahlia non se l'è presa se ho preferito non andare a salutare suo padre in ospedale, non biasima il terrore che ho di rivedere i miei tra quelle mura piastrellate.

Leonida spesso e volentieri se ne sta nel bosco, quando torna mi rivolge a stento la parola. Vedo che tenta di trovare il modo giusto di approcciarsi, ma percepisce i miei stati d'animo e proprio non riesce ad ignorarli. Dopo quel bacio sfuggitomi in un momento di debolezza, è diventato tutto più strano: quando lo vedo i battiti accelerano, balbetto e provo una strana sensazione che mi avvolge tutto il corpo. Mi sento a disagio, questa è la verità. E lui sente il mio disagio e si lascia influenzare, colorando d'imbarazzo ogni istante nel quale non ci troviamo almeno a qualche chilometro di distanza.

Seduto sui sedili rovinati della sala del cinema, mi sento di pesare troppo, d'essere ingombrante. Perfino quando Lui è lontano. È come se avessi invaso il suo spazio vitale, come se fossi un ospite poco gradito ma al quale non si può chiedere gentilente di alzare il culo e andarsene.
Sono certo che sappia che penso questo, e vedo che non tenta in nessun modo di dissuadermi.

Ovvio, gli dai fastidio! Mi ribecco.

Ma se lasciassi questo cinema, dove potrei mai andare? Di tornare tra i miei con la coda tra le gambe proprio non se ne parla. E comunque non mi accoglierebbero.

Dahlia, forse? Stare insieme potrebbe far bene a entrambi, ma non ho intenzione di farle credere che l'unico motivo per il quale mi presento alla sua porta è che non ho dove andare. Magari, però, potrei proporle di passare un po' di tempo insieme, cosa che potrebbe aiutare entrambi a rimettere la testa tra quei libri polverosi che abbiamo abbandonato senza remore. E poi me ne tornerei al cinema quando è ora di dormire. Troverò un lavoro e non appena mi sarò reso indipendente, lascerò del tutto il cinema.

Indipendente da tutto e da tutti, così mi ha detto Leonida.

Sfilo il cellulare quasi scarico dalla tasca dei Jeans e cerco il numero di Dahlia tra i contatti.

"Hey, Meldahlia! Che ne dici di un po' di compagnia reciproca? Mi sto deprimendo e sono ridicolo. Forse quel tuo fantastico pigiamino a fiori potrebbe tirarmi su di morale... sono da tre fra quindici minuti."

Clicco "invia", afferro il casco a scodella dal sedile di tessuto rosso accanto al mio e mi dirigo verso l'uscita. Cammino a ritmo dell'orribile colonna sonora del film bianco e nero che si muove sullo schermo nella disperata ricerca d'attenzioni.

L'aria all'esterno è fredda abbastanza da condensarsi in piccole nuvolette sulla mia bocca, ma comunque abbastanza calda da farmi intuire che l'inverno è ormai alle sue ultime espressioni.

Gli alberi dai rami spogli oscillano nel vento, quasi tremino per la temperatura ancora troppo bassa per loro.

Infilo la chiave nel motorino e schiaccio il pedale di avviamento più volte, forzando il caparbio motore a svegliarsi dal letargo.

Le strade sono bagnate, alcune sono perfino allagate, testimonianza diretta della tempesta che dev'essersi scatenata questa notte. Io non mi sono accorto di nulla, i pensieri mi rombavano in testa ad un volume tanto alto da impedirmi di sentire qualsiasi altra cosa.

Le piante sembrano affaticate, stremate dal maltempo. L'aria mi colpisce le guance dipingendole di rosso, si infiltra nei vestiti e mi solletica il torace.

Nella foresta che costeggia la strada, echeggia il gracchiare di un corvo. Mi si stringe lo stomaco e mi si infuocano gli occhi il naso, proprio come accade quando si sta per scoppiare a piangere.

È vero che la situazione con Leonida è diventata strana e stressante, è vero che tentiamo di ignorarci il più possibile, è vero che ormai è cambiato tutto.

Ma è pur sempre vero che, disagio o meno, eravamo insieme in quel cinema abbandonato che puzza di muffa.

Ed è pur sempre vero che devo rendermi indipendente da tutto e da tutti.

Da tutto e da tutti.

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