XXVI

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Scendo la ripida stradina che porta al vialetto di casa. Akil volteggia con grazia proprio sopra la mia testa, intento a non perdermi di vista neanche un attimo.

Le gambe tremanti, il cuore leggero, le ali che mi sbucano dalla schiena.

Per qualche secondo mi convinco che tutto quel che ho visto, tutto quel che ho vissuto, è solo un sogno. Bellissimo, ma pur sempre un sogno. Poi, però, guardo di nuovo in alto e trovo la mia aquila: le ali spiegate, le piume folte e gli occhi ambra. La sua maestosa figura copre quell'accenno di sole che si intravede dietro la coltre di nuvole: la mia ombra.

Con le mani che ancora tremano, frugo nelle tasche e nello zaino alla ricerca del telefono; vengo improvvisamente colta dal timore che i miei possano avermi cercata senza riuscire trovarmi.

Continuo a frugare, ma del cellulare neanche una traccia; probabilmente mi è scivolato dalla tasca quando galoppavo sulla groppa di un lupo... o magari quando volavo stretta dalla presa di un'aquila.

Assurdo, questo è quello che continuo a ripetermi. Incredibile che esistano esseri come i Totem; ancor più incredibile è galoppare sulla schiena di un cervo o lasciarmi travolgere dal vento che sferza intorno a me e il lupo. Librarmi in aria, libera, tirata in alto dagli artigli dell'aquila. Per ben due volte, anche se in contesti totalmente diversi tra loro.

Eppure è tutto incontestabilmente vero. Lo dimostrano i segni rossi che mi rigano il polso sull'esatto punto della presa degli artigli. Un po' di dolore per la vita.

Niente, l'ho perso, sbuffo rinunciando alla ricerca del telefono.

Ma solo dopo aver compiuto il semicerchio della ripida curva, scopro con allarme che due macchine della polizia sono parcheggiate proprio davanti a casa mia. E c'è anche il motorino di Adham.

Prendo a correre subito dopo aver lanciato una veloce occhiata ad Akil, che intanto si appollaia sulla cima di un pino.

Quasi inciampo su una pigna rotolata a terra e raggiungo la porta d'ingresso. Spingo con decisione e mi ritrovo davanti una schiera di poliziotti in divisa che rassicurano le lacrime di mia madre e il tremore di mio padre.

«Sono a casa!» dico, forse urlando, sbattendomi la porta alle spalle.

«Mel!» mi chiama mia madre in un sussurro, la voce rotta dall'adrenalina.

«Dove sei stata?» mi chiede mio padre stringendomi per le spalle, «Ci hai fatto morire di spavento! Non ti devi allontanare in questo modo, ti avevamo già avvertita quando ci siamo trasferiti!» sbraita, ora che la paura lascia il posto alla collera.

«E ci hai mentito! Hai detto che saresti andata a casa di Adham... perché?» interviene mia madre, gli occhi gonfi e le labbra screpolate.

«Già... perché?» Adham si fa spazio tra le spalle larghe e muscolose dei poliziotti, e si avvicina con sguardo confuso.

«Volevo... volevo solo fare una passeggiata. In pace e senza che nessuno tentasse di sorvegliarmi.» affermo, controllando il tremore della voce, «Proprio come qualsiasi altro adolescente sulla faccia del pianeta!»

Il silenzio: assordante, carico di tensione. Forse anche di imbarazzo.

«Signorina?» mi si rivolge un poliziotto dopo essersi schiarito la voce, «L'abbiamo cercata ovunque, ma non l'abbiamo trovata. E, ecco... si guardi il viso.»

Mi volto meccanicamente a destra, pronta a osservare il mio riflesso nello specchio affisso alla parete: i capelli neri scompigliati, nei quali si incastrano alcune foglie secche; la pelle graffiata dai rami, in una mappa di linee e solchi; le pupille dilatate che coprono il color nocciola delle iridi.

«Le consigliamo di non inoltrarsi da sola nel bosco per nessun motivo: pullula di creature pericolose.»

Creature.

I poliziotti si congedano dai miei e filano verso le loro auto solo dopo avermi rivolto un'occhiata di rimprovero.

«Melanie, come hai potuto mentirci?» mio padre si sfila gli occhiali e li posa sul tavolino.

«Non mi avreste mai lasciata andare.» rispondo, la voce rotta dal tremore.

«E per una giusta ragione.» interviene mia madre, la pelle bianca come un lenzuolo.

«Voi non capite che io ho bisogno dei miei spazi, ho bisogno di sentirmi normale e la vostra continua apprensione non mi aiuta!» gli occhi minacciano lacrime.

«Avresti potuto parlarci, dirci come ti senti... avremmo capito.»

«Oh, no. Non avreste capito e non avrebbe capito neanche lui.» indico Adham che mi fissa sgomento, «Credete che tenermi sotto controllo possa aiutarvi a proteggermi. Ma vi sbagliate, perché io non sono diversa dagli altri ragazzi! Perché trasferisci, perché aiutarmi a cambiare identità se per voi resterò sempre la Melanie di quella cosa

«Non puoi chiederci di non essere in pensiero, soprattutto se inizi a mentire.» ribatte mio padre.

«Se non mi teneste come un uccellino in gabbia non avrei bisogno di mentirvi.»

«Mel, loro vogliono solo...» tenta Adham, allungando qualche passo verso di me.

«Dahlia. Io sono Dahlia!» finalmente le lacrime decidono di uscire dal loro nascondiglio e, con rabbia, mi rigano le guance arrossate.

«Me ne vado.» annuncia Adham infilandosi il casco; sul suo viso una smorfia di delusione.

«Oh, questo è troppo!» sbraito.

«No, questo è troppo.» il mio amico mi afferra il braccio e scopre il polso.

Quei segni rossi che per me significano libertà, improvvisante assumano un messaggio terribile.

«Cosa... cosa sono quei tagli?» sussurra mia madre, scossa da violenti singhiozzi.

«No, non è come sembra!» mi affretto a difendermi.

«E com'è?» domandano all'unisono.

Ma non posso rispondere, non posso parlare dei Totem, di Akil, delle mie ali. La lingua mi si anestetizza e il cervello non riesce a trovare neanche una giustificazione credibile. E il mio silenzio viene frainteso.

Adham scuote la testa con dispiacere: allaccia il casco, esce dalla porta e si allontana in fretta a bordo del suo motorino color carta da zucchero.

Lo seguo con lo sguardo finché non scompare aldilà della curva costeggiata da larghi tronchi scuri.

Tra quei tronchi, due occhi che mi guardano con rammarico, quasi a voler chiedere perdono.

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