Cinquantadue

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Eva...

Il vento sussurra segreti tra le foglie dormienti degli alberi, vola leggiadro accarezzando le felci che oscillano come culle, soffia sospiri ammalianti. Le vette innevate cantano alla loro madre: la luna. Brillano di una flebile luce che a sua volta si riflette sullo specchio cristallino del lago. Un gran bugiardo, il lago: cerca d'esser cielo tempestato di stelle. 

Raggomitolata all'ombra di un masso, osservo l'alta finestra di Dahlia in attesa del momento adatto. Conservo gli ultimi impulsi d'energia, certa che questa possa essere la volta buona per attaccare.

Incaricare Leonida della guardia di una Protetta così a rischio non è stata una grande idea; che stupido Akil a fidarsi di lui! Non è mai stato capace in nulla, quel corvo spennacchiato. Cosa io ci abbia trovato, proprio non lo so. Spesso mi è stato detto che sono istintivamente attratta dalla persona sbagliata, proprio come l'Eva Biblica. Era stata Liz a dirmelo.

Liz.

Sento il suo sangue caldo scivolarmi nella gola, sento la consistenza della sua carne sotto i denti affamati. Sento il macigno sopra al cuore diventare sempre più debole e astratto. E sento la mia realtà allontanarsi sempre di più, pezzo di puzzle dopo l'altro. Come una scacchiera alla quale mancano alcune pedine. Solo una cosa non si allontana dalla mia mente neanche un istante: l'idea delle mani di Dahlia sul corpo nudo di Akil.

Ci penso e ci ripenso, continuamente, instancabilmente. Ci pensavo perfino mentre divoravo la bambina, ascoltavo le sue urla e mi immaginavo la stessa Dahlia urlare di piacere. E allora affondavo i denti e strappavo con ancor più violenza, nel macabro e trucido atto di soddisfare la mia sete di energia. Perché è solo questo il motivo per il quale non mi nutro più di animali: gli esseri umani donano una forza indiscutibile, anche se l'effetto dura per fin troppo poco tempo.

Una volpe con suo cucciolo sfilano a soli pochi metri di distanza dal mio stomaco sfrontato che borbotta rabbioso.

Ho bisogno dell'energia vitale di Dahlia, ho bisogno di sentirla dentro me e credere per un istante d'essere lei. Vorrei poterla rubare e vedermi riflessa negli occhi carichi di desiderio di Akil.

Osservo Leonida prender la rincorsa e lanciarsi nel burrone: sotto la sua chiara pelle nuda, i forti muscoli guizzano d'intrepida eccitazione.

Striscio passando sotto alte radici sporgenti, schivando massi e pozze di densa fanghiglia. Sporgo la testa nel precipizio e vedo Leonida nella posizione dell'angelo. Cade, cade, cade. E non si trasforma.

«Woooah!» urla, divertito.

Aspetta ancora qualche secondo e, a pochi millimetri dalle aguzze sporgenze che feriscono il suolo, muta nel ridicolo corvo spennacchiato.

Inverte la rotta, sbatte le ali con una forza della quale non lo credevo capace, e squarcia la sottile nebbia alla base della profonda gola nera. Sale sempre più in alto, ignorando i sospiri infastiditi degli abeti e rimane in stallo proprio davanti alla finestra di Dahlia.

Mimetizzata sul terreno erboso, riesco a non attirare la sua attenzione.

Akil si sarebbe già accorto della mia presenza da un pezzo!

Sbatte le ali in un paio di colpi poi, come attratto da una forza magnetica, vola via verso la valle della montagna.

È arrivato il mio momento, penso.

Striscio debolmente, circondo la bocca del precipizio e m'immagino la scena vista dall'altro: un enorme serpente che si muove in tondo in cerca di se stesso, come un uroboro.

Raggiungo la base della sporgenza rocciosa sulla quale si erge la casa di Dahlia e, non senza un'estrema fatica, comincio a salire. Sottili e affilati rilievi graffiano e bucano la pelle debole e screpolata della pancia. Continuo a salire, le squame che mi aiutano grazie al loro attrito con la superficie pietrosa. Dietro di me, decine di fini strisce di sangue.

Questa volta ce la faccio, penso imperterrita.

Sfioro col muso il profilo freddo della vetrata ormai divenuta buia. Dall'altra parte della finestra, il gatto mi osserva col pelo rizzato. Soffia di rabbia, i nostri occhi catarifrangenti rispecchiati gli uni negli altri. Continua a soffiare, il terrore dipinto sul suo muso bianco e nero. Alza una innocua zampetta bianca e fa per colpire il vetro.

Dahlia, probabilmente richiamata dai preoccupanti versi del gatto, accende la luce.

Prima che possa urlare per chiamare aiuto, allargo le fauci e colpisco la vetrata con le punte aguzze dei denti. Questi, per la prima volta, si spezzano. Un dolore lancinante m'investe la bocca. Colpisco nuovamente la superficie con il muso, ancora, ancora e ancora.

Dahlia sembra quasi divertita: con la paura ancora negli occhi, alza il mento in segno di soddisfazione.

Sa che Akil arriverà da un momento all'altro, sa che lui l'ha sentita.

Ho poco tempo, penso.

Approfitto dell'ultima scarica di energia per colpire il vetro con la poca forza che mi rimane. Colpisco senza tregua, quasi con disperazione, ma riesco solo a creparlo di pochi, insignificanti millimetri.

Poco prima di perdere le energie per trattenermi aggrappata alla roccia, gli artigli affilati di Akil mi afferrano senza eleganza e mi strappano dalla vetrata. Non oppongo resistenza, sono perfino grata del suo intervento: se non fosse arrivato a salvare la sua stupida principessa nella torre, sarei scivolata come pasto nella bocca della gola nera; proprio come  un topo nella mia.

Sferza l'aria con rabbia, raggiungiamo un anonimo punto della foresta e mi lascia cadere sulla cima dei pini.

Rotolo senza riuscire a trovare la forza di aggrapparmi alla corteccia e cado intrappolata nella biforcazione di due rami.

Chiudo gli occhi stanchi e accetto il fallimento.

L'ultimo.

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