Epilogo

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Dieci anni dopo...

«Tesoro, ho scordato il portafoglio in macchina. Puoi pagare tu?» chiede Daniel, sollevando nostro figlio dal seggiolino del ristorante nella stazione di servizio.

«Nessun problema, aspettatemi in macchina.» rispondo dolcemente.

Raggiungo la cassa ticchettando sulle mie Louboutin che Eva avrebbe invidiato. Tiro fuori il portafoglio dalla borsa e mi ritrovo faccia a faccia con la foto di Mr Dunky che guarda fisso in camera. Il cuore mi si stringe, soprattuto ora che sono così vicina, ma mi scappa ugualmente un sorriso. Pago il conto ed esco.

Il viaggio in macchina è lungo, il cuore palpita nervosamente nella speranza di non trovare diverso il posto rispetto a come l'ho lasciato.

Ricordo le lacrime d'addio rivolte a quei boschi ancestrali, gli stessi boschi ai quali sto sorridendo ora.

La strada si allarga sullo spettacolo di una catena di montagne bianche di candida neve. Il cielo coperto dal tappeto di nuvole plumbee è solleticato dalle cime ondeggianti di pini e abeti.

«Siamo arrivati?» chiede annoiato mio figlio.

«Sì.» rispondo in un sussurro, gli occhi che mi brillano.

«Ora capisco perché insistevi tanto per tornare!» dice Daniel, meravigliato.

Annuisco evitando prudentemente di parlare, certa che se solo aprissi bocca rischierei di finire col singhiozzare di gioia e malinconia.

Tanti ricordi dolorosi sono legati a queste foreste dalle mille tonalità di verde, come il respiro affannato di Akil l'ultima volta che l'ho visto. Ricordo le sue interiora riverse a terra e la speranza delusa che quel lupo rianimato fosse lui. E invece era Leonida.

Stringo la mano di mio marito tanto forte da farmi diventare bianche le nocche. A lui non ho raccontato tutto; sa del motivo per il quale i miei avevano deciso di trasferirsi in questo paesino di montagna, sa dei disturbi psichici di cui ho sofferto, e sa dell'attacco che ho subito nella foresta. Ma non sa nulla dei Totem. Non lo sa nessuno.

Non ho evitato di parlarne per paura di non essere creduta o magari di essere considerata pazza, non ne ho parlato per pura, sana gelosia.

Percorriamo la stradina ripida che conduce alla mia vecchia casa e ci fermiamo proprio davanti al vialetto: non è cambiato nulla, solo la famiglia che la abita.

Forse è un bene non poter entrare un'ultima volta, forse è un bene non potermi sporgere verso la profonda gola nera. Ma resta comunque un dolore doverla salutare da lontano.

«È questa?» chiede mio marito, indicando il cancello aperto che affaccia sul portico.

Annuisco e distolgo lo sguardo, prima che le lacrime mi inondino il viso. Lui mi porta una mano ai capelli e mi accarezza premurosamente solleticandomi la nuca.

Alla fine l'ho trovata quella bella vita che tanto cercavo, quell'uomo che avrebbe potuto amarmi ogni giorno senza vincoli, e quel figlio che è riuscito ad oscurare tutti i dolori del passato. E va bene così; anzi, ringrazio per la felicità che mi è stata regalata.

Daniel non è Akil, ma non voglio che lo sia. Akil era tutt'altro tipo d'amore, tutt'altro tipo di energia che mi pervadeva con prepotenza. Ma non era possibile. Non era sano.

Parcheggiamo di fronte all'albergo e scarichiamo i bagagli. Da queste parti dovrebbe trovarsi la casa di Adham, penso dolorosamente ricordando la sua allegria contagiosa.

Meldahlia, così mi chiamava. Oggi sono solo Dahlia, ma non rinnegherò mai la Melanie che continua a soffrire in un angolo nascosto delle mie viscere.

«Devo fare una cosa, aspettatemi qui.» annuncio, sfilandomi i tacchi e infilando le mie vecchie Vans ai piedi.

«Va bene, io e questo signorino qui disferemo le valige. Vero, amore di papà?» risponde Daniel, ignorando le proteste divertite di nostro figlio.

Lascio l'albergo e mi incammino lungo la strada deserta che porta alla scuola superiore. Quando arrivo, fortunatamente la trovo deserta. Studenti e insegnanti hanno da poco finito le lezioni e liberato il parcheggio.

Mi guardo intorno e respiro a polmoni aperti il dolce odore di abete. Tiro il cappuccio sulla testa e mi lascio cadere su una panchina sulla quale sono depositati due centimetri di neve. Sento la giacca inzupparsi ma non importa, voglio farmi travolgere appieno da tutto ciò che mi circonda.

Alzo lo sguardo sui rami di uno degli alberi che circondano la scuola e vedo un'aquila. Mi fissa, immobile su un ramo che oscilla sotto il suo peso. Allarga le ali brune mostrandomene l'impressionante ampiezza e piega il becco uncinato in un inchino. Mi si blocca il fiato, ogni rumore si annulla abbandonandomi al tamburellare sordo del mio cuore che pulsa nelle orecchie, nella pancia, nella gola.

Ma in fondo lo speravo, lo sapevo; ecco perché sono voluta venire proprio qui, in questo parcheggio deserto.

Richiude le ali e vola su un ramo più basso. Un turbine di neve gli ronza intorno in uno stormo di minuscoli, candidi fiocchi. Smetto di respirare e mi alzo in piedi, allungo qualche passo verso la regina dei cieli con sicurezza. Una lacrima mi si cristallizza all'angolo dell'occhio. A questa distanza riesco a sentire il suo odore: pino, aria, libertà.

Ed io mi sento di nuovo viva, completa.

Allungo una mano per toccarla, ma l'atroce clacson della macchina di Daniel interrompe bruscamente il momento.

Proprio come la prima volta, penso divertita.

L'aquila mi rivolge un ultimo sguardo: gli occhi ambra, miele, resina, oro, mi trafiggono con la brutale forza che mi aspettavo. Poi, vola via.

«Che fai, sali?» chiede mio marito.

Mi concedo qualche ultimo secondo per ammirare il folto piumaggio vibrare ad ogni battito d'ali.

«Arrivo.»

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