Quarantaquattro

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Leonida...

Siedo sullo scalino del marciapiede: una gamba tirata al petto e l'altra allungata in avanti.

Il vialetto di casa di Adham puzza di piscio di gatto, immondizia e fumi tossici. Gli abitanti tengono prudentemente le finestre serrate; persino le persiane sono chiuse, come se oscurare la propria casa all'esistenza della vita possa essere un buon metodo per impedirne il contagio.

«Oggi pomeriggio andremo a trovare tuo padre.» sento dire da sua madre, il tono freddo e distaccato.

«Devo studiare.» tenta Adham, sperando di sottrarsi a quel dovere.

«Rimarrai sempre un asino buono a nulla, non hai bisogno di studiare.» risponde seccamente, «Hai bisogno di diventare un uomo rispettabile.»

«Non capisco cosa...»

«Oh, capisci benissimo, maledetto disgraziato!» sbraita lei, assestandogli uno schiaffo in pieno viso, «Non credere che non sappia della tua... della tua... della tua depravazione.» continua, disgustata.

«Mamma no, io...»

«L'unico motivo per il quale non l'ho ancora detto a tuo padre, è per proteggerlo da un infarto.» insiste con disprezzo, «Ci porterai alla tomba!» conclude caricando uno sputo che finisce sul viso di lui.

Eva dovrebbe sbranare loro, non qualche vecchietta inferma, penso con rabbia.

Adham esce di casa sbattendosi la porta alle spalle. Si asciuga la saliva della madre con la manica della giaccia e monta in sella al motorino. Il peso dell'enorme zaino sulle spalle gli fa perdere momentaneamente l'equilibrio.

«Ehi, straniero!» lo saluto, alzandomi dal marciapiede.

Lui, vedendomi avvicinarmi, allarga un enorme sorriso a trentadue denti. Gli occhi grandi e neri luccicano di speranza. Si porta una mano al proprio cappello immaginario, lo porta al petto e china la testa rispondendo ritualmente al nostro saluto abituale.

«Dove vai?» gli domando, poggiando le braccia incrociate sul manubrio del motorino.

«A scuola?» risponde alzando un sopracciglio.

«No, ogni no. Niente scuola.» dico in un sorriso colpevole, «Andiamo a farci un giro, ma guido io.»

Salgo sul motorino azzurro e afferro il manubrio. Niente casco, solo i miei capelli liberi al vento. Adham mi si aggrappa al torace e sento il suo umore passare dallo sconsolato all'entusiasmato. Ed io sono felice di essere riuscito nel mio compito.

Sgaso con la manopola dell'acceleratore e alzo il piede dall'asfalto. Lasciamo quel vicolo sudicio, quel paese meschino, quell'ambiente soffocante. Saliamo su per i ripidi sentieri delle montagne, lasciandoci baciare dal sole di fine inverno. Ci lasciamo travolgere dal profumo del muschio, dall'odore di cielo. E sento che ora, sotto sotto, Adham sta bene.

Imbocco un vialetto costeggiato da un giardino incolto e lo percorro fino a ritrovarmi di fronte una vecchia catapecchia di legno. Subito sotto il cornicione del tetto, pendono traballati una paio di lettere superstiti che un tempo componevano la scritta dell'insegna: la C è storta da un lato, soddisfacendo il segreto desiderio di diventare una U; la M è appesa a un filo elettrico mentre la A è sdraiata su un fianco.

«Ma dove siamo?» chiede Adham sfilandosi il casco a scodella.

«Siamo al vecchio cinema, devi vedere una cosa.» rispondo saltando giù dal motorino e facendogli segno con la mano affinché mi segua.

Salgo i tre scalini scricchiolanti e gonfi a causa della pioggia, spingo la porta dalla cornice di legno e dal vetro spaccato ormai da anni, ed entro nel locale abbandonato sfilando accanto al bancone dei pop corn. Sposto la tenda in velluto verde alzando una nuvola di polvere ed entro nella grande sala. Centinaia di sedili in tessuto rosso rammentano il ricordo dei propri antichi ospiti.

«Ma che figata!» dice Adham camminando in avanti intanto che gira su se stesso, «Ma come hai trovato questo posto?»

«Ci vivo.» rispondo guardando in alto, nell'esatto punto in cui si trova l'uccelliera.

Ho sempre pensato che andare al cinema sia un'occasione, una cosa da non fare tutti i giorni, altrimenti perde tutto il suo fascino. Ho sempre pensato che bisognasse sedersi ai primi posti, e chi se ne fotte degli occhi che si incrociano.

«Siediti.» ordino, indicando il posto 1 fila A.

«Ma dove vai?» chiede con il tono di chi conosce benissimo la risposta, ma vuole comunque recitare la scena.

Salgo gli scalini che portano alla sala di proiezione. Cerco uno dei miei film preferiti, inserisco la pellicola nel proiettore e aziono il meccanismo.

A lettere cubitali, compare sul grande telo ingrigito dal tempo la scritta che da inizio al vecchio film in bianco e nero "EVA CONTRO EVA".

È la storia di una ragazza appassionata di teatro, non c'entra un cazzo con la mia Eva; ma a volte, la notte, mi basta sentir nominare il suo nome per riuscire ad addormentarmi.

Torno giù con calma, contemplando la forma di ogni gradino, concedendomi il tempo di scacciare dalla mente l'immagine di Eva seduta su quelle poltrone, nuda, che mi chiama con l'indice. I suoi capelli scompigliati, le labbra rosse, l'odore di donna. Il sapore di vita, il suo cuore all'unisono col mio, la sua risata, i popcorn trai miei capelli.

«Woooah!» grida Adham con entusiasmo, alzando le braccia in aria.

E per un attimo mi sento felice di non essere da solo lì dentro, ma Adham non è lei.

E io sono solo un corvo del cazzo.

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