NOVE

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Prima...

Le calze a maglie larghe di Marina non lasciavano spazio all'immaginazione, così come il top scarlatto che mi arrivava ad un paio di centimetri sopra l'ombelico.

«E sciogliti un po'! Sembri uno spaventapasseri!» mi urlò la ragazza, per sovrastare il rumore della musica.

I capelli rossi le volavano a ritmo delle luci psichedeliche. Era difficile –anzi, del tutto impossibile– riuscire a mantenere il passo del gruppo.

«Bevi questo!» mi allungò un bicchiere di carta contenente un liquido che odorava di fragola «Mandalo giù, è buono!»

Obbedii. Non ho idea di come si chiamasse quel cocktail, ricordo solo che bruciava da morire. E di buono non aveva proprio nulla. Ma se bastava qualche sorso in più per abituarsi all'ardore dell'alcool... in fondo non avrebbe fatto alcuna differenza, no? Mi avrebbe sciolto e Marina mi avrebbe trovata perfettamente in linea con il resto del gruppo. E cosa le avrebbe impedito di invitarmi di nuovo?

Se solo avessi saputo che ero la protagonista di un gioco malato. Se solo avessi detto ai miei che non stavo affatto andando a dormire da un'amica d'infanzia, ma uscivo con quel gruppo di bulle che mi tormentava da anni.

Mi distrassi un unico, indelebile istante. Qualcuno del gruppo mi versò nel bicchiere una polverina bianca. Ed io non capii più nulla. Ricordo solo le avance di un paio di ragazzi, i video girati dal gruppo "per divertimento" e la macchina di questo amico di Marina, Eric, che non voleva saperne di ripartire.

Ricordo anche la stazione del treno e le sue luci fredde e distanti. I sedili completamente vuoti e gli schiamazzi delle ragazze. I baci sul collo di Eric. Mi ricordo il dolore alla testa quando mi ha sbattuta nel bagno del treno, l'incapacità di urlare. L'incapacità di respirare. Il gruppo era lì a guardare, a filmare ogni cosa. Nei video erano udibili le loro risa.

Poi il buio.

Ora...

Una ventina di paia d'occhi è fissa su di me e, tra non più di qualche minuto, tutta la scuola avrà il mio nome sulla bocca. Studenti, insegnanti, inservienti, genitori.

Il mondo di carta costruito meticolosamente durante un'estate di traslochi, psicoterapeuti e avvocati, sta pian piano crollando. Ed io con lui.

Leonida supera la schiera di bachi che lo dividono da Eva, l'afferra per il collo e la sbatte con violenza contro la parete.

«Che cazzo fai?» le ringhia, naso contro naso.

«Cerco di sabotare il tuo maledetto piano.» risponde lei in un trillo, come se la stretta delle grandi, ruvide e potenti mani di Leonida non riuscisse minimamente a ferirla «E mi diverto un po'.»

«Ho sempre un piano di riserva.» risponde lui, scuotendola per il collo un'ultima volta.

Eva ricade sulla sedia con tutta la grazia della quale è capace. Accavalla le lunghe gambe fasciate in un paio di jeans aderenti, digita qualcosa sulla tastiera del suo cellulare e schiocca le dita per richiamare l'attenzione. Decine di trilli e vibrazioni rompono il silenzio incuriosito della classe.

Eva stizza l'occhio e sorride compiaciuta.

«Fatevi un giro su internet, ragazzi. Conoscete Melanie Leiden.»

Non so quale forza sconosciuta mi sia venuta in soccorso, ma inaspettatamente trovo il coraggio di muovere le gambe e scappare via. Nessuna novità: sono fuggita dalla mia vecchia scuola, dalla mia vecchia città e anche dalla mia vecchia vita. Ecco cosa, veramente, Dahlia mi ha insegnato: scappa e ricomincia.

Ma quella cosa non mi abbandonerà mai. Sarà sempre lì a distruggere ogni recita e ogni rapporto umano. Ogni tentativo di tenere la testa alta.

Ma cosa posso fare? Stare a guardare mentre tutta la scuola, tutto il paese, tutto il mondo riceve quel fottuto video? Vedere la loro espressione eccitata e divertita, immaginarmeli la notte a godere dei miei gemiti di terrore in sottofondo? Niente di più malato dei ragazzini arrapati che si infuocano con il video di una violenza. E niente di più innaturale di una ragazza che punta il dito, incolpa o giudica.

Non che nel video si vedesse chissà cosa, fatta eccezione per alcuni momenti che rendono la situazione inequivocabile... ma solo qualche secondo, perché per il resto del tempo si vedono le spalle di Eric e il suo malato movimento. Ecco perché il video è ancora lì: "non si vede un gran ché".

Nei mesi passati mi sono sentita sotto perenne accusa: in fondo ero vestita da puttana, ubriaca e senza ritegno. Cosa cazzo potevo pretendere, se non attirare l'attenzione del più debole che, a causa della mia indecenza, non è riuscito a reprimere un impulso "del tutto naturale". Perché è questo che si insegna oggi: non metterti la minigonna. Mai che un padre prenda da parte il proprio figlio per educarlo a tenersi le mani nelle sue di mutande.

Mi perdo tra i corridoi tutti identici. Dopo qualche minuto in cerca della via d'uscita, scopro con raccapricciante dolore che ogni studente mi fissa con il telefono stretto tra le mani. Ridono, bisbigliano, imitano le scene più squallide.

La vista mi si appanna dietro l'alone di lacrime che mi ricopre il viso. Riprendo a correre, fino a quando non sbatto contro il petto duro di qualcuno.

«Meldahlia.» alzo lo sguardo e trovo il viso preoccupato di Adham, «Vieni con me, andiamo.»

Mi afferra per le spalle e mi aiuta ad uscire da quell'inferno di risa e grugniti.

Fuori l'aria è gelida, ma non mi importa. Attraverso il parcheggio sorretta dall'abbraccio del ragazzo.

«Sali.» mi invita, battendo la mano sulla sella di un motorino.

Non discuto. Mi aggancio il casco e mi stringo forte al suo torace. Sfrecciamo sulle strade tutte curve, superiamo un paio di pontili sotto i quali scorre imponente il fiume; questo leva in aria schizzi d'acqua dolce che vanno a confondersi con le mie lacrime. Le vie costeggiate da centimetri di neve, sembrano attutire lo stridio delle ruote del motorino. Sono scossa da singhiozzi talmente forti che Adham quasi fatica a tener dritta la traiettoria. Le mani mi sono diventate bianche per via dell'aria gelida che odora di muschio.

Gli alberi oscillano mossi dal vento, lo sciame di fiocchi intorno a loro volteggia leggiadramente per poi depositarsi a terra in soffici mucchietti informi.

Guardo il mondo intorno a me e, minuscola paragonata alla maestosità delle montagne dalle cime innevate, penso che potrei semplicemente scomparire.

Apro la bocca per respirare a pieni polmoni, ma neanche l'aria che congela riesce a placare il fuoco che mi divampa senza tregua nel petto.

Adham sterza bruscamente ruotando la maniglia del freno: in mezzo alla strada un enorme lupo dagli occhi ambrati. Ringhia, sfoderando le zanne bianche dalle quali goccia del sangue di un rosso scuro, quasi nero. Il pelo bianco e grigio è arruffato e rovinato in alcuni punti, come se si fosse appena azzuffato.

Riesco a percepire il suo odore che mi arriva in una folata inebriante, sa di abete e muschio, di ghiaccio e sangue.

«Porca merda.» Adham trema dal terrore, «Bello, va tutto bene... tornatene nei boschi. Per favore?»

Il lupo annusa l'aria, ringhia un'ultima volta e poi scompare nel folto della foresta.

A terra, le sue impronte rosse nella neve.

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