XXXIII

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«Quest'oggi, nel fitto del bosco, è stato ritrovato un cadavere. Si pensa che si tratti di una giovane donna, ma il terrificante stato di deturpazione non consente alcuna sicurezza riguardante l'identità del corpo.» cantilena la giornalista dal piccolo televisore d'ospedale appeso proprio sopra alla porta della stanza che condivido con un paio di anziane signore, «Il capo della polizia crede che si tratti dell'attacco di un animale; di un lupo, più precisamente.»

Una delle mie due compagne tossisce rumorosamente: la dentiera le vola via dalla bocca in uno scatto di mandibola. L'altra sbuffa alla vista del corpo della ragazza uccisa, nascosto sotto uno spesso telo bianco.

«Non si può più andare a letto tranquilli.» si lamenta una delle due.

«Sciocchezze! Cosa si credeva quella ragazza? Il mare per i pesci, il cielo per gli uccelli e i boschi per i lupi. Non era posto suo, la foresta!» risponde l'altra.

«Non mi starai mica dicendo che,» fa una breve pausa per rinfilarsi la dentiera dalla quale pendono fili di bava trasparente, «se la sia cercata, vero?»

«Ebbene sì, mia cara: se l'è cercata!» risponde seccamente, incrociando le braccia al petto.

«Fatela finita voi due.» le rimprovera l'infermiera entrando a passo deciso nella stanza, «agli altri pazienti non interessano i vostri continui battibecchi.» dice, accennando con la testa alla mia direzione.

La donna afferra i vassoi vuoti ai pedi dei letti delle due signore e fa per uscire in fretta, come a voler sottolineare la moltitudine di compiti che deve eseguire.

«Mi scusi?» la chiamo con la voce roca.

La ragazza si ferma assumendo un'espressione quasi scocciata.

«Cosa è successo?» domando, «Perché sono qui? E dove sono i miei...»

«I tuoi genitori sono proprio qui fuori. Li faccio entrare.»

Neanche il tempo di finire la frase, che intravedo la chioma riccioluta dai riflessi ramati di mia madre. Mio padre è subito dietro di lei ed entrambi mi guardano con un'espressione che non avevo mai visto: c'è paura nei loro occhi, certo; ma la cosa della quale più mi sorprendo, è di scoprirli arrabbiati.

«Cosa... cosa è successo?» domando, realmente ignara del motivo per il quale mi trovo di nuovo in un letto d'ospedale.

«Oh, ma piantala Melanie!» sbotta mia madre.

Melanie.

«Non ne possiamo più di queste cose, moriremo di crepacuore.» aggiunge mio padre con un filo di voce.

«Non capisco...» aggrotto la fronte.

Premo i palmi contro il materasso e faccio per tirarmi su, ma un'atroce fitta alla spalla sinistra mi costringe a lasciarmi cadere sulla schiena. Porto lo sguardo al punto dal quale si irradiano le scariche di dolore e scopro, con sorpresa, una macchia rossa che si allarga sulle fasce che fino a qualche secondo prima erano state bianche.

Porto le dita sulla ferita, come se il gesto possa aiutarmi a trovare una spiegazione. Faccio una leggera pressione e mi ricordo del tagliacarte.

«Cosa avevi in mente?» domanda mia madre, la voce strozzata.

Mi ricordo del proiettile di Akil.

«Veramente io... io...»

Mi ricordo, più vagamente, di lui che mi solleva dalla moquette e mi porta davanti alla stanza dei miei.

«Prima i tagli sul polso... ora questo!» sbraita mio padre, cercando di mascherare gli occhi rossi con una mano.

Mi ricordo un veloce bussare: toc, toc, toc.

«Ci vuoi a pezzi? È questo che cerchi?» adesso sta urlando e non tenta più di bloccare le lacrime.

«Tesoro...» mia madre lo ammonisce e al tempo stesso lo consola.

Mi ricordo la sua corsa per il corridoio e il suono del battito d'ali subito fuori dalla mia vetrata.

«No...» tento di giustificarmi, «Stavo solo, ecco... io stavo facendo... e poi sono inciampata! Non volevo ferirmi!»

«Mel,» mia madre si siede ai piedi del letto, «devi parlare con noi. Devi essere sincera, se vuoi che qualcuno ti aiuti.»

«Abbiamo lasciato la nostra casa per aiutarti a trovare pace. Credevamo che qui avresti potuto costruire una nuova vita, lasciandoti alle spalle tutti i vecchi problemi.» aggiunge sconsolato mio padre.

«Non si sfugge dai problemi...» sussurro in preda alla collera.

Non m'importa che questa mia obiezione faccia loro credere che io abbia davvero tentato di farmi del male; non mi interessa perché ora mi sento come pugnalata al cuore: hanno lasciato la loro casa per me, il loro grande sacrificio! E dei miei, di sacrifici, non importa?

«Come ti senti, amore?» chiede mia madre, sperando di riuscire a sopperire la discussione che sta per scoppiare.

«Non vi ho chiesto io di mollare la vostra vita.» aggiungo, controllando la rabbia nella voce.

«Non farmi questo...» sussurra mio padre, la sua supplica.

«Come stai tesoro? Come stai?» insiste mia madre.

«Voglio andare a casa.» rispondo.

«Certo, vado a chiamare il medico per sapere cosa possiamo fare.» si alza in piedi e afferra la mano di mio padre, «Vieni con me?» gli chiede.

Lui annuisce debolmente ed entrambi scompaiono aldilà della porta.

«Li hai fatti proprio arrabbiare, eh?» S'inserisce una delle due vecchiette, quella con la dentiera.

«Oh, fatti gli affari tuoi!» la riprende l'altra, «Ah, ecco! Novità.» la signora pigia sul pulsante del telecomando e alza il volume.

«È stato identificato il corpo della ragazza!» annuncia la giornalista con entusiasmo, indifferente ai singhiozzi di una coppia di mezza età sullo sfondo, «Si tratta di Elizabeth Morrol, sbranata, stando a quanto dicono le prime analisi legali, da un branco di lupi.»

Sullo schermo viene proiettata la foto della vittima: occhi grandi e scuri, capelli biondi e un sorriso smagliante. Un viso familiare.

Elizabeth Morrol.

Liz, l'amica di Eva.

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