XVI

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Il primo giorno di sole dopo i continui temporali che si sono susseguiti per tutta la settimana. I raggi tiepidi e decisi penetrano attraverso la finestra colorata della biblioteca del paese.

Decine, centinaia, migliaia di volumi torreggiano incollati alle pareti fino a sfiorare il soffitto. La luce soffusa viene catturata e trattenuta dalle copertine in pelle scura, coperte da dita di polvere. Il pulviscolo aleggia nell'aria, sorpreso dal raggio di sole che solletica timidamente il parquet in legno scuro.

Sfioro i libri impilati con disordinata cura, lasciando il segno del mio polpastrello sullo strato di polvere.

Guerra e pace, Anna Karenina, Il ritratto di Dorian Gray, 1984 di Orwell e, in cima, I dolori del giovane Werther.

Forse la lettura più azzeccata, quella di un amore non corrisposto. Non tanto per la componente romantica, quanto per il suicidio del protagonista.

Alzo un braccio per afferrare un tomo vecchio e logoro, ma il dolore alla spalla mi costringe ad abbassarlo. Ormai le ferite causate dagli artigli dell'aquila iniziano a rimarginarsi, ma i movimenti troppo bruschi mi provocano ancora qualche fitta.

Mi porto una mano alla cicatrice e analizzo con estrema gratitudine il suo rilievo ancora sensibile al tatto.

Davanti a me si proietta l'ombra di una figura familiare. Poi un braccio, fasciato in un maglione blu dal ricamo a croce, si sporge in avanti e afferra la copia dell'opera di Goethe. Mi volto e scopro il profilo delicato, ma allo stesso tempo incisivo, di un ragazzo dall'aria conosciuta. Tiene le palpebre socchiuse e lo sguardo sulla copertina del romanzo. Il sorriso appena accennato nascosto nell'ombra, i capelli dal colore dell'oro con qualche riflesso rame, gli zigomi alti e l'aurea ancestrale che lo circonda.

«Deprimente, non credi?» mi chiede, porgendomi il libro.

«Non direi "deprimente"... credo che sia più giusto definirlo "nostalgico".» rispondo, afferrandolo.

Il ragazzo continua a guardare il pavimento, le mani in tasca e un sorriso stentato. La mascella squadrata, il pomo d'Adamo che oscilla, le clavicole incorniciate dalla scollatura a V del maglione.

«Ci... ci conosciamo?» mi chino in avanti tentando di afferrare qualche dettaglio celato astutamente dalla luce fioca.

Lui alza il mento e mi inchioda alla parete con la potenza dei suoi occhi color ambra.

Il respiro corto, il cuore in accelerazione, le vene che pompano sangue. Le cicatrici iniziano a bruciare e, inaspettatamente, sento lo stomaco riempirsi di quel senso di vuoto di quando si precipita. Dalla memoria emerge lo stridio del corvo, lo sferzare del vento e il grido tragico, disperato e inconsolabile della profonda gola nera. Poi, l'inversione di rotta.

«Piacere, Akil.» mi porge la sua mano forte.

Akil, aquila.

Allungo la mia e, a contatto con la sua pelle, sento nel braccio l'irradiarsi di decine di migliaia di scariche elettriche. La stretta forte, rassicurante e decisa.

«Dahlia.» mi impongo di rispondere, come a volergli dimostrare che la Melanie dagli istinti autolesionisti sia scomparsa il giorno in cui è riuscita a volare. Il giorno in cui lui l'ha fatta volare.

«Sei hai bisogno di qualche consiglio su una lettura più... allegra, chiedi pure.» annuncia, allargando il sorriso divertito.

Perché non dice nulla. È lui, non mi sbaglio.

«Sto bene così.» rispondo, non riuscendo realmente a concentrarmi sulla conversazione, presa dal totale incanto delle sue iridi.

Centinaia di luci ambra, ocra e oro in un gioco caleidoscopico di ombre e bagliori. Due pietre preziose che qualsiasi antica tribù celtica avrebbe considerato portatrici di fortuna.

«È stato un piacere.» mi saluta, chinando lievemente la testa in segno di rispetto.

Lo guardo andar via con calma tra le file create da mucchi di fogli impilati e tomi polverosi che, nella loro saggezza spettatrice, hanno capito tutto.

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