XXIII

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«Non ti sembra un po'... strano?» chiedo.

Adham, gli occhi a cuore e la testa altrove. A quanto pare Leonida si era presentato a casa sua per scusarsi della sua solita "scortesia".

Dai, chi crede a una scusa del genere?

«Certo! Non è venuto da me per questo, ne sono sicuro.» alza un sopracciglio e attende che arrivi da sola.

«Scordatelo, Adham. Leonida non è gay, lo sai bene.» devo riuscire a togliergli questa idea dalla testa prima che sia troppo tardi.

«Secondo me è solo curioso.» sorride con malizia, un sorriso con il quale intende promettersi chissà cosa.

Questa cosa andrà a finire male.

Camminiamo lungo il corridoio della scuola, ignorando le occhiate fugaci e i bisbigli feroci degli studenti.

Il frocio e la troia.

Abbasso la testa, sentendo il peso della vergogna piegarmi la schiena. Nella mia stanza, o anche nella foresta, posso essere Dahlia; a scuola continuerò sempre ad essere Melanie. Non certo la Melanie di un tempo, ma la Melanie che conoscono: la ragazza del loro video preferito.

«Che ti prende?» Adham si sporge, allungando il collo coperto di peluria scura.

«Mh? Niente.» mi affretto a dire, «Solo che questo fatto mi suona strano. Fossi in te ci andrei con i piedi di piombo.»

«Avrei una pessima battuta da fare a questo punto, ma mi limiterò a sorridere e annuire.» risponde lui, ridendo sotto i baffi per la sua stessa allusione.

Suona la campanella e ci sbrighiamo a raggiungere l'aula di storia delle culture. Prendiamo posto a due banchi vicini, entrambi neri di scarabocchi.

La professoressa fa il suo veloce ingresso accennando un saluto da dietro la torre di fogli che tiene stretta tra le braccia: «Buon giorno a tutti.»

«Buon giorno a lei, professoressa.» la voce dura, roca e vagamente divertita.

Mi si rizzano i capelli all'altezza della nuca: Leonida sfila in classe con quel suo passo felino. Il ghigno beffardo, i capelli arruffati dal vento, il vago sentore di terra che emana.

«Signor Mane, non faccia aspettare i suoi compagni. Prenda posto.»

Leonida punta lo sguardo sulla sedia vuota proprio dietro Adham. Allunga il passo, nel frattempo indirizzandomi una veloce, loquace occhiata.

Percepisco la tensione del mio amico, le sue guance arrossarsi, il sorriso allargarsi.

Nel mio petto: un crescendo d'odio impossibile da contrastare.

Faccio per voltarmi, quando sento il rumore di tacchi a spillo battere rumorosamente contro il pavimento bianco della scuola.

No, non può essere.

Eva. Eva in tutto il suo splendore: la folta chioma bionda, le labbra rosso sangue, le lunghe gambe fasciate in un paio di calze nere, una gonna a scacchi e sulle spalle una giacca di lucida pelle nera.

L'intera classe si volta a guardarmi in attesa di una qualche reazione da fenomeno da baraccone, manco fossimo in uno stupido circo; tutta la classe tranne un unico paio d'occhi.

Le mani di Leonida si aggrappano alla tavola del banco: stringe talmente forte da far diventare bianche le nocche screpolate. Gli occhi si illuminano, le pupille si allargano e la schiena gli si raddrizza.

Eccola, la sua debolezza.

«Ah, Eva. Già di ritorno?» la rimbecca la professoressa, palesemente alludendo al suo breve periodo agli arresti domiciliari, «Prenda posto.» aggiunge con freddezza.

E l'unico posto libero è proprio quello dietro di me.

Eva ancheggia tra i banchi guadagnandosi l'attenzione delle ragazze insicure e l'ammirazione dei ragazzi arrapati. E la conseguente ferocia di Leonida.

«Beh? Come va, Melanie?» mi sussurra all'orecchio allungandosi sul banco.

Mi volto, il viso in fiamme e la ricorrente minaccia delle lacrime.

Vista più da vicino, Eva non è bella come sembra: la pelle screpolata nelle quali fessure si annidano litri di correttore e fondotinta. Gli occhi velati da una patina opaca, gli angoli della bocca spaccati, un accenno di occhiaie che il trucco non è riuscito a nascondere. L'acre odore di sangue.

«Meglio che a te, a quanto pare.» la schernisco, pungendola sul vivo.

«Ne sei così sicura?» ribatte lei, allungando una mano alla mia spalla.

Preme con le sue affusolate dita smaltate di nero, infilzandole nella cicatrice ancora sensibile.

Quel dolore rende tutto più chiaro: Akil, l'aquila; Leonida, il corvo; Eva, il serpente.

Il collegamento mi arriva come un lampo, un'illuminazione biblica: il diavolo che tenta Eva nelle sue sembianze di rettile.

I suoi occhi si sporcano di rabbia quando, fuori dalla finestra, qualcosa cattura la sua attenzione. Ritrae la mano e torna a sedersi, forzandosi per ignorarmi.

Volto la testa e, aldilà dello sguardo penetrante di Leonida, tra due secolari tronchi d'abete, spunta la testa affusolata di un lupo.

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