Cinquantuno

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Adham...

Chi lo dice che gli uomini non possano piangere? Chi lo dice che gli uomini debbano costantemente mantenere un atteggiamento austero? Uomini come mio padre.

Una volta mi ha beccato a piangere per il finale di un vecchio film, non ricordo il titolo. Ricordo, però, questa sua brevissima frase: «Tanto vale che ti tagli via il cazzo.». Avevo dieci anni.

Gli spessi strati di polvere posati ovunque si alzano in volo mossi dal mio passaggio. Mi porto le mani alle tempie e premo, premo, premo, nell'atroce speranza di riuscire a comprimere i pensieri che vorticano con violenza. Rimbomba tutto, rimbombano i ricordi dolorosi, gli insulti come coltellate.

Salgo delle vecchie scale in legno che suonano di centinaia di scricchiolii. Non so bene dove sto andando, lascio che le gambe cerchino il luogo più invisibile, più sicuro. Spingo una porta distrutta dalle tarme e mi ritrovo in un bagno illuminato dalla luna nascosta dietro una nube sottile. I flebili raggi irrompono nell'ambiente sbattendo contro le lame aguzze della finestra rotta.

Mi appoggio con le mani sui lati del lavandino sporco di muffa e detriti. Le lacrime scivolano sulle guance arrossate e colano nell'incavo della ceramica, scoprendo una parvenza di bianco candido sotto tutto il sudiciume. La bocca impastata tenta di bloccare il suono dei singhiozzi che mi percuotono il petto senza pietà. Alzo lo sguardo e scopro il mio riflesso in uno specchio velato di grigio: gli occhi gonfi contornati di viola, la bocca semiaperta, la saliva agli angoli delle labbra, il naso colante e il collo rigido, contratto.

«Fai schifo!» urlo alla mia immagine, sferrando il primo pugno, «Schifo, schifo, schifo!».

Frammenti di vetro mi si infilano tra le nocche sanguinanti, volano in aria in una pioggia di cristalli rossi e cadono a terra in tintinnii vivaci.

Il fracasso ha fatto scappare diversi topi, li sento zampettare in tutto il cinema. O forse sta solo ricominciando a piovere.

Davanti a me, ora, solo un muro grigio.

Mi piego sulle ginocchia e mi lascio andare a un grido liberatorio. Scivolo su un fianco e rimango sdraiato a terra, rannicchiato in posizione fetale.

«Adham.» mi sento chiamare dolcemente.

Sospiro di spavento e osservo la figura sulla porta. Leonida si guarda la mano e la scopre imbrattata di sangue; del proprio sangue.

«Cosa hai fatto?» domanda addolorato, si inginocchia e mi afferra la mano ferita.

Non riesco a rispondere, non riesco a parlare. Non riesco a respirare.

Riesco solo a contemplare il suo profilo affilato che domina la luce della notte. Osservo la bocca contratta in una smorfia di sofferenza, gli occhi metallici sui frammenti di vetro che mi feriscono la carne. Odora di terra e di pioggia, odora di speranza. Odora di sicurezza e conforto.

«Povero specchio, che male ti ha fatto?» scherza, sfilando delicatamente le schegge una ad una, «Conosco un bersaglio migliore, sai?»

«Si?» domando in un debole sussurro.

«Si.» conferma annuendo, «Ha un gran faccione, un cuore di ghiaccio, una bocca di merda e decine di tagli su quella sua testa pelata.» risponde giocando, ma non riuscendo a nascondere la feroce nota di rabbia.

Mi lascio scappare un sorriso quando in realtà vorrei solo continuare a piangere.

«Non fingere, so cosa provi. Lo sento.» dice, strappandomi una striscia di maglietta per usarla come fasciatura.

«Non so cosa fare...» ammetto.

«E cosa dovresti mai fare?» si siede davanti a me a gambe incrociate, «Insomma: fottitene.»

«Ti hanno mai detto che sei particolarmente sboccato?» scherzo, riferendomi alle continue parolacce, «Non so dove andare, come fare a mantenermi, come fare a respirare.» continuo, piegando la testa verso il basso.

«Sai, Adham, un uomo non si misura in base alle lacrime che versa, in base a ciò che ama, o in base alla sua mascolinità.» dice, seriamente, «Si misura sulla forza dell'animo, sulla sua sensibilità e sulla capacità di rimanere in equilibrio. Devi rimboccarti le maniche, Adham. Trova un lavoro, trova ciò che ti fa stare bene e renditi indipendente da tutto e da tutti.»

«E pensi davvero che un frocio negro e musulmano possa farcela in un mondo di bianchi per bene?» sbotto, la voce traboccante d'ira.

«Aspetta qui.» interrompe alzandosi in piedi.

Torna qualche instante più tardi, tra le braccia uno straccio bianco macchiato di grigio tutto arrotolato su se stesso. Si rimette seduto e allarga il lenzuolo, lo alza in aria e se lo tira addosso coprendo anche me.

«Ecco Adham, questo è il tuo mondo.» dice, indicando il piccolo spazio d'aria sotto il telo che forma una capanna, «Impara a gestire il tuo spazio in relazione alle emozioni che provi. Qui sotto ti senti al sicuro rispetto al resto del mondo, vero?»

Annuisco asciugandomi il naso con una manica, proprio come farebbe un bambino.

«Trova un lenzuolo più grande e poi altri sempre più grandi. Incontrerai tanti stronzi, ma cosa ti importa del loro giudizio? L'unico giudizio che conta è il tuo.»

Le schegge di vetro, illuminato dai raggi argentei della luna, rifletto il lenzuolo di centinaia di minuscole lucciole caleidoscopiche.

Sorrido ammirandone il gioco e Leonida fa lo stesso, anche se capisco quanto si senta ridicolo in questo momento. Ma non importa, è qui ed io sono qui.

I lunghi capelli scuri gli incorniciano il viso affilato, il naso aquilino non ne distrugge l'armonia dura. Gli occhi blu come il fondo del mare nascondono una rabbia profonda, placata dall'ondeggiare dei brevi istanti di pace. L'iride brilla sotto i frammenti luminosi, sembra quasi di guardare il fondale marino sul quale si riflette il disegno delle onde illuminate dal sole.

Forse potrei essere io la sua pace.

Mi sporgo verso di lui e prima che possa fermarmi premo le mie labbra contro le sue. Neanche il tempo di godermi il suo sapore, che vengo spinto via.

«Oh, ma che fai?» dice, ridendo.

Si alza in piedi di scatto, barcollando all'indietro. Lascia scivolare il lenzuolo sul pavimento e siamo di nuovo parte di questo mondo duro e malvagio, crudele e spietato.

Forse non vuole deridermi, ma il mio orgoglio ferito subisce la sua ultima, definitiva crepa.

«Lascia perdere.» sbotto, piegando con rabbia la testa per la vergogna.

«Non è successo nulla, amico.» dice, sottolineando l'ultima parola.

«Amico? Amico?» domando nervosamente, alzandomi in piedi.

Il mio viso a pochi centimetri dal suo. Lo provoco spingendolo rabbiosamente: «Amico?» grido.

«Sì, Adham. Amico.» risponde con tranquillità.

«Sei un pezzo di merda come tutti gli altri.» gli sputo contro, di nuovo con le lacrime agli occhi, «Ti credo che non ti voglia! Eva può avere di meglio.» sibilo, rosso per il pianto.

Vedo il suo sguardo irrigidirsi, infuocarsi e placarsi subito dopo.

«Mi hai capito?» urlo, assestandogli un'ultima spinta.

Leonida, invece di rispondere alle mie provocazioni, mi stringe in un abbraccio. Tento di divincolarmi ma lui mi tiene stretto.

Resisto fino a quando lo sconforto torna ad avere la meglio. Scivoliamo a terra, le ginocchia sui vetri taglienti.

Sono solo.

TOTEMDove le storie prendono vita. Scoprilo ora