XLI

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La vetrata spalancata, il vento che inonda la mia stanza, il tempo scandito dal ritmare intrepido del mio cuore. Il cuoio aderisce direttamente sulla mia pelle al di sotto di una giacca a vento nera.

Akil si è tuffato nel dirupo da qualche secondo, e io aspetto solamente di vederlo risalire, di vederlo fendere la coltre di nebbia che soffoca la profonda gola nera.

Tengo il braccio alzato, pronta a lasciarmi afferrare. Compare prima il suo becco uncinato, poi gli occhi ambrati e poi le sue regali ali brune: la regina dell'aria.

Si posiziona proprio davanti a me: le ali larghe come Cristo sulla croce, un Salvatore pronto a salvare il mondo. Un Totem pronto a salvare me.

Tendo il braccio ancora più in alto. È una supplica, la mia.

Ti prego, afferrami.

Akil si avvicina, aggrappa il mio braccio con gli artigli e mi solleva. I piedi, coperti solo da un paio di calzini con le renne, si staccano dal pavimento. Non posso vedermi, ma sono certa di avere un'espressione ridicola dipinta sulla faccia. Guardo in basso, i pini mi salutano ondeggiando, solleticando le montagne che si stagliano sullo sfondo di un cielo verde che tende al nero, un dipinto ad acquerello.

Schernisco la gola nera che mi vede allontanarmi in alto, sempre più in alto, tanto che se allungo la mano sono certa di poter toccare le prime stelle della notte.

I silenziosi rumori della foresta cupa sotto di noi si muovono tra le foglie, strisciano tra le felci e si intonano in canti di caccia.

Mi guardo intorno, decisa a catturare ogni dettaglio di ciò che mi circonda: l'odore di camino di una baita tra gli abeti, il freddo della neve saldamente ancorata alle vette taglienti, il gorgogliare della cascata e il bubolare dei gufi. Il gelo mi si insinua sotto gli abiti, l'umidità viene assorbita dai miei capelli che danzano disordinatamente sulla testa e una lacrima scivola sulla guancia, per poi colare, interrompendo la calma del lago sotto di noi; questo ci riflette come uno specchio, racconta agli abitanti acquatici la storia di una ragazza e della sua aquila. Del suo lupo, del suo cervo.

In testa, continuo a cantare una canzone rock sentita mille volte alla radio. Non so bene cosa c'entri, ma continuo a cantarmela a squarciagola nonostante dalla bocca non mi esca un suono che non sia un sospiro di sorpresa.

Akil scende di quota e lascia che atterri delicatamente su una larga sporgenza nella roccia di una montagna. Da qui mi sembra che ogni cosa possa essere possibile, da qui mi sembra d'essere l'unico essere umano esistete. Da qui non esiste la violenza, la paura e il dolore. Esiste solo il terreno sul quale mi siedo, qualche macchia di neve che copre il suolo erboso, l'aquila che muta in uomo.

Resto seduta con le gambe che dondolano nel vuoto: sotto di noi, il fiume in piena narra la sua storia al letto nel quale scorre da secoli. Dietro di noi, un'enorme grotta che sembra ospiti qualche creatura. Akil si riprende dagli spasmi di dolore e si insinua della caverna; esce dopo qualche secondo, il suo corpo nascosto in una larga tuta nera.

«Ma dove siamo?» domando.

«Beh, diciamo che questa» indica la grotta, «è casa mia.»

Mille volte mi sono immaginata come sarebbero andate le mie relazioni: un incontro casuale in biblioteca, qualche bacio rubato, il primo appuntamento e, una volta che la storia fosse diventata seria, avrei accettato un invito a casa sua. Mi immaginavo case luminose, genitori cordiali e sorridenti, un camino acceso.

Invece, mi trovo davanti alla bocca di una caverna, il muschio che ricopre la roccia grigia e qualche rampicante a nasconderne parzialmente l'ingresso: la più bella casa che avrei mai potuto immaginare. Odora di lupo, di libertà e d'aria. Odora d'aria.

«Posso?» chiedo, avvicinandomi all'entrata.

Akil annuisce.

Abbasso la testa ed entro. In un angolo alcune vecchie braci muoiono in deboli scoppiettii, una pila di panni tutti perfettamente identici occupa una parte del suolo coperto di paglia e legna da ardere. In un altro angolo, una coperta rossa ripiegata con cura e qualche libro con i segnalibri infilati nel mezzo. In parallelo alla bocca della caverna, un tunnel stretto conduce all'interno della montagna.

«Dove sbuca?» chiedo indicandolo.

«Nel mezzo della foresta, vicino agli insediamenti dei lupi.» risponde.

Mi guardo intorno, incredula della semplice bellezza del rifugio. Mi immagino notti trascorse sotto una trapunta di lana a fissare il paesaggio che si apre tutt'intorno al dirupo sul quale si erge la sua casa.

«Non dici... non dici nulla?» chiede, spaventato da una mia possibile, nonché assolutamente improbabile, reazione negativa.

«Guardati intorno.» dico, girando su me stessa con le braccia larghe, «È magnifico.»

I suoi occhi si illuminano di gioia: «Vieni qui.» dice, sedendosi sulla coperta rossa ripiegata più volte su se stessa.

Sposta la bassa pila di libri e mi siedo accanto a lui. Le nostre spalle l'una contro l'altra, l'imbarazzo di fare la prima mossa e il suono dei nostri respiri affannati nell'impresa di tenere a bada il martellare frenetico del cuore.

Akil fa scivolare la sua mano sulla mia, si volta verso di me, porta la mano alla mia guancia e mi convince a guardarlo. Mi perdo nello scintillare dei suoi occhi gialli, ocra, ambra, oro; se non fossi già seduta, probabilmente crollerei a terra.

Sappiamo entrambi cosa sta per succedere. Lascio che mi baci, lascio che mi sfili il bracciolo di cuoio, lascio che mi spogli, lasci che mi sdrai, i libri come cuscini. Lascio che mi curi le ferite della violenza. Lascio che i nostri corpi diventino uno unico, lascio che mi ami nel senso più carnale e spirituale che esista.

E il mio corpo non è più un pezzo di carne.

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