Sessanta

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Adham vive collegato ad una macchina. Aldilà del vetro che mi separa dalla terapia intensiva, vedo gli occhi muoverglisi al di sotto delle sottili palpebre viola. Le guance scavate, la bocca aperta, nessuno al suo capezzale. Solo io e Leonida aldilà del muro di vetro.

«Ce la farà?» domando debolmente.

«Deve.» risponde lui con durezza.

I lineamenti tesi, gli occhi addolorati, i pugni stretti nascosti nelle tasche dei jeans scuri: Leonida è una bomba ad orologeria.

«Sei sicuro...» azzardo, «insomma, quello che mi hai detto l'altro giorno...»

«Non ne sono sicuro.» si volta a guardarmi, «Lo so per certo. Ero lì, sai?» ironizza piccato.

«Io non riesco a crederci, comunque.» abbasso la testa e mi osservo le punte delle scarpe, «Lo conosco, non farebbe mai una cosa del genere.»

«Credi quello che vuoi, a me non cambia nulla.» risponde con indifferenza.

La realtà è che non voglio crederci. Voglio pensare a lui come la maestosa aquila che mi sollevava in aria, che mi regalava le proprie ali.

I Totem sono creature ambigue, ha detto Leonida. E questo spiegherebbe il motivo per il quale sono ormai tre giorni che di Akil non c'è traccia.

Ogni sera mi sono seduta davanti alla mia vetrata e ho aspettato di vedere i suoi caleidoscopici occhi color miele, trattenendo la paura di trovarne, invece, un paio color fiele.

Eva sembra scomparsa, ma io so bene che si tratta  unicamente della calma prima della tempesta. Leonida è sempre in ospedale, non lascia Adham neanche un istante. Ed io resto senza sorveglianza, completamente esposta ai macabri desideri della serpe. Mr Dunky percepisce la mia angoscia e azzarda magre consolazioni con le sue prepotenti fusa.

Perché non viene da me? Mi domando, percorrendo il corridoio che porta alla camera ospedaliera di mio padre.

«Tesoro!» mi saluta, allargando le braccia.

Mi fiondo su di lui, poggiando la guancia sul suo petto ormai non più tanto fragile. Un singhiozzo mi sfugge dalle labbra.

«Tesoro, che succede?» Chiede con preoccupazione accarezzandomi i capelli, «Come sta il tuo amico?»

«Non lo so...» sussurro.

«Oh, vedrai che ce la farà!» tenta di rassicurarmi, «E da domani ti prometto che sarò pronto a stringerti la mano ogni volta che ne avrai bisogno: mi dimettono.» m'informa sorridendo.

«E la gamba?»

«La gamba sta apposto. Certo, non riuscirò più a usarla come prima. Ma gli scrittori zoppi fanno sempre un sacco di successo, sai?» scherza, alzando il mento con fierezza.

«Ah sì? Dimmene uno.» rispondo, stando al gioco.

«Walter Scott.»

«Touché.» sorrido, consapevole del velo di malinconia nella voce.

Solo durante il viaggio di ritorno in macchina con mia madre, mi torna in mente un dettaglio che mi fa schizzare il cuore in gola: l'ipotesi del trasferimento una volta che mio padre sarà dimesso, non è più un problema lontano anni luce.

**********

«L'equinozio di primavera promette l'inizio di un clima più clemente.» annuncia la meteorologa in televisione.

Seduta al mio solito posto, giocherello con le verdure nel piatto: «A me sembra che faccia freddo come al solito.» commento, comportandomi come quei bambini polemici che si lamentano se il giorno del proprio compleanno si sentono esattamente come il giorno prima.

«Falla finita.» mi riprende mia madre, divertita.

«E ora la linea a te, Sara.» la meteorologa incrocia le braccia dietro alla schiena e sorride.

«Sì, grazie Marta. Abbiamo notizie sconvolgenti!» annuncia eccitata la giornalista, «È stato ritrovato il cadavere di una bambina che si era data per dispersa! Sembra che il suo carnefice non sia altro che il temuto lupo del quale non si fa altro che parlare in questi terribili giorni.»

Vengono trasmesse le immagini del piccolo corpo nascosto sotto un telo nero che riflette le luci rosse e blu delle volanti della polizia. I genitori della vittima si abbracciano, i volti contratti dal dolore e le gambe cedevoli.

«Povera gente.» commenta mia madre, asciugando un piatto appena lavato, «Non sembra lontano da qui.» aggiunge, osservando meglio la strada sulla quale arriva un'ambulanza in tutta fretta.

Quasi cado dalla sedia, certa che Eva stia aspettando il momento buono per attaccare di nuovo. E questa volta avrò solo un paio di forbici dalla punta tonda a proteggermi.

«Non ho più fame.» mi alzo dalla sedia e corro su per le scale. Mi fiondo nella mia camera e mi nascondo sotto le coperte.

Perchè non viene! Urlo a me stessa in preda al panico.

Tiro fuori la testa dalla mia tana, come una tartaruga dal proprio guscio, solo qualche ora più tardi. Mia madre è ormai tra le braccia di Morfeo e la luna è alta nel cielo.

È una notte chiara e silenziosa, i pini e gli abeti si confondono perfettamente in un unico tappeto verde, quasi nero. La luce argenta delle notte illumina i profili delle montagne e riflette debolmente sulla vetrata.

Mi alzo dal letto e sento il torace comprimersi in migliaia di dolorose fitte, come spilli che bucano la carne, come schegge delle costole che si frantumano. Cado a terra, i polmoni sotto vuoto.
L'incapacità di urlare. L'incapacità di respirare.

Le fitte si alleviano ed io rimango sdraiata su un fianco sulla moquette sgualcita. La bocca semi aperta, la gola contratta e le lacrime bollenti a ustionarmi le guance.

Tengo gli occhi fissi sulla vetrata e aspetto che lui arrivi, ma invano.
Osservo l'ondeggiare dei pini, il soffiare della foresta, e il viaggiare sereno delle poche nubi che sporcano il cielo nero adorno di milioni di piccole luci. Sembra quasi che la Terra e respiri, o magari sospira percependo la mia sofferenza. Sofferenza che Akil non avverte.

È proprio quel gonfiarsi e sgonfiarsi del bosco, come grandi polmoni verdi, che mi mette di fronte ad una realtà disarmante: Akil non mi sente perché non è più il mio Totem.

Leonida ha detto la verità, penso portandomi una mano al cuore che minaccia di esplodere, Akil deve essersi vergognato per quello che ha fatto ad Adham e ha distrutto il legame che ci univa.

«No...» sussurro, «No!» grido, strappandomi ciocche di capelli.

Non voglio vivere in un mondo senza Akil; non voglio vivere in un posto che non sia questo; non voglio morire sbranata da un serpente. Voglio morire qui, in questi boschi, vicino ad Akil, lontana dalle fauci di Eva.

Di nuovo, esistono solo le risa del video nel treno, il bip che segnala l'inizio delle riprese, la violenza sul mio corpo.

Risoluta, mi alzo in piedi e raggiungo la vetrata. Spingo l'anta verso sinistra e guardo giù. La profonda gola nera canta di soddisfazione, percepisce la mia decisione. La foresta, fino a qualche istante prima pacata e silente, diventa chiassosa: i grilli friniscono, i gufi bubolano, i lupi ululano, il corvo gracchia. Un'orchestra di suoni che mi incoraggiano a saltare.

Allargo le braccia e mi aggrappo con le dita al cornicione della vetrata; mi sporgo e mi lascio inglobare dalla fresca aria rarefatta incapace di trattenere il mio peso. Lascio la presa di alcune dita e sento le braccia tremare per lo sforzo.

Basta.

Sto per lasciarmi scivolare, che sento la porta spalancarsi. Lo spavento mi fa perdere l'equilibrio e sento il peso della testa trascinarmi verso il basso. Poi, vengo aggrappata per la maglietta e tirata all'indietro.

Akil... penso, con speranza.

Cado a terra e mia madre insieme a me. Mi abbraccia e piange, mi urla e mi accarezza. Io sento solo le forza abbandonarmi, scivolare via dal mio corpo, rotolare verso la vetrata e cadere giù, in pasto alla profonda gola nera.

«Ce ne andiamo.» dice mia madre tra i singhiozzi, «Andiamo via di qui.»

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