Capitolo 3.

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Il mattino seguente, mi alzai con estrema calma dato che la sveglia era programmata per le sette ed erano solo le sei e dieci. Preparai il caffè e aprii la porta della stanza di Yemaly, cercando di non fare rumore per non svegliarla, ma non la trovai aggrovigliata sotto le coperte come ogni mattina. Mi meravigliai del fatto che non fosse tornata a casa, ma pensai che fosse dal suo fidanzato odioso che mi odiava senza motivo. Le mandai ugualmente un messaggio, giusto per assicurarmi che fosse tutto ok, ma l'ultimo accesso risaliva alle undici e trentadue della sera prima, quindi non ricevetti risposta.

Andai a fare la doccia e mi meravigliai di come i miei occhi verdi fossero stanchi, ma felici. Stavo imparando tante cose nuove e il confronto con persone che avevano molta più esperienza di me stava dando i suoi frutti. Non importava quanto studiassi di teoria, la pratica faceva apprendere dieci volte meglio le nozioni rispetto a ripetere la solita lezioncina a memoria ancora e ancora.

Mi asciugai il corpo e indossai un paio di jeans con una felpa glicine, giusto per coprirmi dato che appena arrivata in ospedale avrei dovuto indossare la divisa. Bevvi l'ultimo sorso di caffè e controllai l'orario prima di uscire.

Non ero una tipa mattiniera, ma nemmeno ritardataria e quando avevo l'occasione di svegliarmi prima ne approfittavo sempre per fare una passeggiata, prima che il caos della città prendesse vita e rendesse il camminare a piedi quasi impossibile. Amavo osservare ciò che mi circondava, riuscivo a notare anche i più piccoli particolari e nonostante odiassi il mio essere introversa, quella era una delle piccole sfumature della mia timidezza che mi piacevano di più. Ero silenziosa, ma nella mia testa c'era il caos più totale. Avrei voluto urlare, urlare senza sosta per qualsiasi cosa, ma restavo sempre in silenzio perché ritenevo che le mie parole fossero inutili e che la mia opinione fosse sempre sbagliata. Un comportamento non corretto e fuori luogo soprattutto a quell'età, infatti avevo provato a cambiare e nel giro di dieci anni avevo fatto un miglioramento notevole, seppur per mia madre non fosse mai abbastanza. Non sarei mai stata abbastanza, ci sarebbe stato sempre qualcosa in me che avrebbe usato per criticarmi.

«Ciao, mi puoi aiutare per favore?» la voce di un bambino mi fece risvegliare dai pensieri e mi abbassai alla sua altezza, sorridendogli.

«Dimmi pure» gli accarezzai le piccole braccia e lo sentii tremare leggermente.

«Mi fa male qui» indicò la sua pancia e solo in quel momento mi resi conto che avesse un livido sull'altro avambraccio e l'orecchio dove gli colava del sangue, ormai secco.

«Che cos'è successo?» mi allarmai e mi alzai in piedi, cercando un divanetto per sederci e per analizzare meglio le sue ferite. Lo aiutai a sedersi sul bancone dell'accettazione, prendendolo in braccio e non degnai nemmeno di uno sguardo la signora al computer dato che era un'emergenza e lei e i suoi modi brutali potevano andarsene a quel dannatissimo paese.

«Non so se posso dirlo» mormorò, abbassando lo sguardo sulle sue gambe.

«Puoi dirmi tutto quello che vuoi, piccolo» gli accarezzai la testa e lui mi guardò con gli occhi pieni di lacrime.

«Patrick si arrabbierà se parlo» sussurrò, guardandosi attorno.

«Come ti chiami?» gli chiesi, cercando di capirne di più.

«Adam» mormorò, «ho cinque anni e mezzo e la mia mamma si chiama Linda. Ma non posso dirti di più, non posso, non posso» scosse la testa più volte.

«Ti va di venire con me?» cambiai argomento e lui annuì. Lo prendi in braccio, facendolo scendere e afferrai la sua manina. «Cosa ti fa male, tesoro?» domandai, dirigendomi verso il reparto di pediatria.

«Il braccio e la pancia» mormorò e cliccai il pulsante dell'ascensore.

«L'orecchio?» mi abbassai alla sua altezza e scrutai il suo viso con attenzione. Aveva il labbro superiore leggermente viola e la guancia destra più gonfia della guancia sinistra.

Amethyst | H.S. #wattys2022Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora