Capitolo 46.

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Erano trascorsi tre giorni dall'operazione e finalmente riuscivo a stare seduta senza contorcermi dal dolore. Ava e Michela erano state dimesse quella mattina, ma non sarebbero dovute tornare a lavoro almeno fino alla settimana successiva dato che non sarebbero state in grado di gestire le emergenze, nel caso ce ne fossero state.

Trascorrevo le mie giornate per la maggior parte da sola, con videochiamate random ai miei genitori per far vedere loro che stessi bene e che non c'era bisogno venissero a Los Angeles, anche perché l'ultima cosa che volevo era avere le loro discussioni inutili tra i piedi.

Avevo iniziato a ripetere alcune cose di anatomia, per l'esame che si sarebbe tenuto da lì a pochi giorni, per ammazzare il tempo e non stare lì a pensare ogni cinque minuti al perché Harry ancora non fosse venuto a trovarmi. Avevo chiesto di lui agli altri, ma nessuno riusciva mai a beccarlo.

Ero anche nel suo reparto, per cui non ci sarebbe voluto un grande sforzo a venire cinque minuti da me, anche dopo la fine del turno. Ma forse non ero così importante per lui come lui lo era per me, quindi mi ero ritrovata a piangere come una deficiente per sentirmi sola proprio in quel momento che volevo averlo accanto maggiormente, finché non erano arrivate Anne ed Everleigh a consolarmi e a dirmi che sarebbe andato tutto okay.

Volevo ritornare a casa mia, nel mio letto e nel mio bagno, senza aver bisogno che l'infermiera mi aiutasse ad alzarmi e a spogliarmi. Rivolevo la mia indipendenza e i miei reggiseni, che non potevo ancora indossare. Mi sentivo sempre così spoglia e vulnerabile, ed era per questo che la maggior parte delle volte restavo sotto le coperte, come se fossero il mio scudo.

Volevo anche fare lo shampoo, ma la ferita alla nuca e alla fronte non me lo permettevano. Così come la ferita al ginocchio non mi permetteva di camminare da sola.

«Chi ha fame?» un urlo mi distrasse dai pensieri che Yemaly mi aveva vietato di fare.

«Cosa mi hai portato?» sorrisi all'uomo che distribuiva il cibo a pranzo.

«Ho fatto una cosa illegale» mi sorrise e aprì il coperchio di plastica dal vassoio, «ti ho preso l'acqua frizzante invece della liscia, come piace a te» mi sorrise.

«Grazie» sorrisi e mi alzai con la schiena contro i cuscini.

«E le due ragazze?» indicò i due lettini vuoti accanto ai miei.

«Dimesse tre ore fa» spiegai e presi il telefono dal comodino che aveva iniziato a vibrare.

«Quando dimettono te?» mi chiese.

«Non lo so» sospirai, «spero presto.»

«Ci vediamo dopo quando vengo a prendere il vassoio» sorrise e andò via.

«Em» sbuffai, dato che era la decima volta che mi chiamava in due ore.

«Hai mangiato?»

«In questo momento» risposi, infilandomi una forchettata di fusilli al pomodoro in bocca.

«Stasera passo e ti porto il computer?» propose.

«Sì, ti prego» mormorai, «ho bisogno di fare qualcosa, altrimenti impazzisco.»

«Quel coglione è venuto?»

«No», borbottai, «a che ora vieni stasera?» le chiesi sentendomi sola.

«A che ora inizia l'orario di visite? Alle sette?»

«Sì, mi pare di sì. Dopo chiedo meglio ai ragazzi, se passano a trovarmi» dissi.

«D'accordo, ci sentiamo tra mezz'ora» disse ed attaccò. Risi per come fosse premurosa Yemaly, più dei miei genitori e pensai a quanto fossi davvero fortunata ad averla accanto a me, nonostante tutto e tutti.

Amethyst | H.S. #wattys2022Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora