Otto virgola tre periodico

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Francesco era convinto che la mente umana ponesse, alla base di tutto, un'enorme distinzione tra ciò che si capisce e ciò che non si capisce.

Da una parte ogni cosa era chiara, si espandevano orizzonti infinitamente conosciuti e venivano poste domande futili con risposte preimpostate.

Dall'altra era tutto un gran casino.

Era un gran casino anche il fatto che fosse immensamente difficile sforzarsi per capire ciò che non si comprende, era difficile, stupido e irriverente.

Una sorta di insulto all'incomprensibilità.

Aveva passato anni interi della sua vita cercando di dare un senso alle cose, provando ad allineare fumi di sensazioni attraverso parole che non sarebbero mai bastate.

O meglio, le parole si univano l'una dopo l'altra e lui aveva troppa paura per leggerle.

Aveva paura e si limitava a guardarle di sfuggita, da lontano.

Era lui ad accecarsi per loro, fingendo di non vederle.

Quelle parole erano sempre state là, e lui le aveva lette all'improvviso.

Ed era rimasto incantato.

Non aveva capito, rimaneva fermo a vivere ad occhi chiusi ed era sempre più sicuro di essere abbagliato da quell'assurda felicità che giaceva nell'inspiegabilità di gesti improvvisi. Non li comprendeva e finiva per amarli più di ogni altra cosa.

Bastava avere coraggio.

E lui, adesso, ne aveva a sufficienza per due persone.

Non era stato difficile rendersi conto di cosa piacesse ad Axel, così come non era stato difficile imparare a farlo sorridere.

Al contrario, convincerlo ad avvicinarsi era stato un parto.

Inizialmente si era infilato in un angolino del letto e Francesco l'aveva guardato per un po', distante, chiedendosi quanto tempo sarebbe passato prima di poter cambiare le cose. Erano passati interminabili minuti prima che Francesco avesse trovato la forza di distendere le dita, toccandogli timidamente il gomito. Axel era impallidito, era diventato ancora più piccolo, e aveva occupato il minore spazio possibile nel letto, come se avesse effettivamente potuto fingere di non esistere.

Il fatto era che il letto aveva una piazza sola. Ed era abbastanza evidente che Axel esistesse.

Francesco si era fatto qualche complesso, per un po', domandandosi se avesse corso troppo e se avesse costretto Axel a fare cose che non avrebbe mai voluto fare.

Poi aveva chiamato a sé tutto il coraggio che aveva in corpo, si era spinto verso di lui, soltanto un po', quanto bastava per posare le labbra sulla stessa guancia che aveva baciato all'infinito.

Lo aveva fatto ancora, ancora e ancora, finché Axel non aveva sorriso, fiondandosi in quello spazio fra le sue mani nel quale entrava alla perfezione. Erano rimasti fermi a lungo, senza dire niente, mentre la luna perforava le persiane, filtrando nella stanza che li conteneva a malapena. Francesco vedeva la luce brillare sul volto di Axel e passava le dita dove regnava l'ombra, per equilibrare quel che già era perfetto.

Faceva correre la mano fra i suoi capelli e lui rabbrividiva appena, per tutto il corpo, come un fiore al vento.

Dopo, per qualche assurdo motivo, Axel era finito per posare la testa nell'incavo della spalla di Francesco, guardandolo da vicino e baciandolo da lontano, mentre i petali dei loro fiori creavano un amare silenzioso che sfibrava i loro steli.

Francesco, in quell'istante, non aveva pensato a niente al di fuori di quanto Axel somigliasse a una finestra aperta, vista dall'esterno, di un muro sul quale il sole batteva alle otto di sera di una giornata di maggio. E somigliava anche a novembre, alle nuvole basse e alla luce morbida. Somigliava pure a febbraio, e al caldo di una casa e al freddo di una strada. Somigliava al mare mentre piove. E alle scie degli aerei nel cielo. A quando guardi gli alberi dal basso e sembra che ti guardino anche loro. Somigliava alle quinte di un teatro.

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