Scheletri

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<Figura di merda.> Francesco sorrise piano, inclinando la testa verso il pavimento, mentre un'ondata di calore gli scottava gli zigomi. Sarebbe voluto sparire nella bottega, lasciando là i bambini e dimenticando un pomeriggio che non avrebbe voluto vivere. Le mura lo opprimevano, sentiva le ginocchia tremare e sciogliersi silenziosamente, mentre si formava una pozza densa e vivida contenente tutto quell'elettrizzante terrore.

Sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa, l'indecisione non avrebbe fatto altro che ancorarlo a ciò che temeva più di ogni altra cosa. Le mani sudavano e lui non sapeva da cosa stesse sgusciando via, Niccolò gli porse un oggetto al quale non prestò attenzione, una donna sulla cinquantina passò accanto ai due ragazzi fermi nell'istante bloccato prima del brivido. Francesco pensò che, se solo fosse trascorso un ultimo secondo, un attimo indefinito, allora sarebbe riuscito a liberarsi dalle incrostazioni che lo rendevano un insieme con il suolo. E aveva paura, aveva paura di alzare lo sguardo e scontrarsi brutalmente con un'anima minuscola, talmente piccola che avrebbe voluto tenerla in mano, in un palmo che sembrava fatto apposta per contenerla. E aveva così tanta paura che, se si fosse messo a nevicare in quel preciso momento, lui non se ne sarebbe accorto.

Axel lo metteva in soggezione per il solo fatto di essere immensamente innocuo.

Era troppo innocuo.

Talmente innocuo da buttare fuori dal suo armadio dozzine di scheletri ondeggianti, talmente innocuo da accarezzarli, sussurrando loro di non temere, di continuare a danzare sotto quella neve bollente che bagnava le loro ossa.

Ed era quasi piacevole la percezione che nessuno dei due fosse fuori da uno stato di stallo.

E gli scheletri non lo spaventavano più, erano belli, con le ossa chiare e le dita sottili. A Francesco piacevano, lo guardavano attraverso paia di orbite vuote, surreali nel buio che nascondevano. Gli sembrava di avere una piccola orbita proprio lì, nel mezzo della mano destra, la stessa mano che stava strofinando sui pantaloni, nel tentativo di staccare un po' di quella coltre di sudore. Quel piccolo foro era perfetto, splendido per essere colmato da un'anima troppo sottile per poter vagare sul vento e troppo grande per essere contenuta in un solo corpo.

Era passato solo un attimo, eppure i muri erano giunti a premergli contro la pelle.

E respinse quell'istante in cui aveva pensato a quanto sarebbe stato splendido accarezzargli le dita, facendo risalire per le falangi una di quelle piccole scie di luce che aveva visto la prima sera in cui avevano parlato per davvero. Si sentiva come uno sfibrato filo cerato privo di ganci, e si sarebbe appoggiato a qualsiasi cosa pur di non scivolare nella pozza densa in cui si era sciolto.

Ti prego, pensò dimmi che, un po', tutto questo fa paura anche a te.

Ti prego, dimmi che tutta questa neve entra anche nella tua orbita vuota.

Ti prego, dimmi che ti piace sentirla bruciare.

<Chi sono?> Axel agitava una mano inquieta su un bottone della camicia, mentre accennava ai due gemelli che percorrevano il corridoio, alla ricerca di un cibo che li allettasse. Francesco si chiese se Axel indossasse mai qualcosa di diverso da camicie troppo grandi per lui. Non ci provava nemmeno ad apparire carino, probabilmente la mattina evitava anche di incontrare la sua immagine nello specchio, eppure sembrava stare una spanna sopra a chiunque altro.

<Bambini.>

<Fin qui c'ero arrivato.>

Fu in quell'istante che Francesco si accorse della mancanza di Lukas, ma ciò non sembrò interessargli. Gli occhi di Axel si erano assottigliati sotto la pressione degli zigomi, e in quel momento il resto avrebbe potuto attendere. Le iridi sembravano cumuli di nuvole che si sovrapponevano al cielo, cinte di nubi temporalesche che portavano il bel tempo. Axel non aveva ancora smesso di sorridergli. E gli occhi di Francesco non erano tanto interessanti quanto i suoi.

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