Francesco era felice.
Non lo sapeva, si limitava a interpretare quella voglia di ridere come un'euforia passeggera. Eppure gli astri non gli erano mai sembrati così vicini.
Vide una lucciola, mentre camminava per entrare nel paese. Era piccola, grande quanto metà di un acino d'uva. Emanava una luce potente, radiante, inimmaginabile per un insetto di tali dimensioni. Ma brillava così tanto da farlo sorridere. Aveva voglia di correre sotto la luce dei lampioni che funzionavano a intermittenza, come le insegne neon dei negozi aperti fino a tardi. Aveva voglia di entrare nella macchia di castagni che sfumava nei campi di grano, di correre tra i rami che si aprivano gli uni sugli altri, al pari di un ricamo irregolare. Voleva perdere il respiro, un po' per la corsa, un po' per lo stesso motivo per cui lo stava perdendo anche in quel momento. Voleva dimenticare tutto e ricominciare dall'inizio, all'ombra apparente di una roccia coperta di muschio, all'ombra che lo proteggeva dal pallore della luna, all'ombra che gli scendeva liquida sui vestiti e sulla pelle tesa, all'ombra che splendeva, nella notte, più dei lampioni, più della lucciola che scompariva tra i ciuffi d'erba ai bordi della strada. L'ombra splendeva di luce riflessa, ed era questo a impedirgli di respirare. Non voleva che sfiorisse dalle sue labbra la stessa aria che luccicava di luna. L'avrebbe voluta far rimanere là, a nauseare il respiro.
Perché stava bene, senza capire niente di ciò che gli succedeva.
Perché, forse, era tutto parte del gioco.
Un gioco assurdo, un gioco che non odiava e non amava, un gioco in cui tirava i dadi sperando che uscissero le cifre più basse, solo per poter amare quella sconfitta che gli vibrava nei polmoni.
Era bello non capirci un cazzo.
Gli girava la testa, sentiva i capelli che gli rigavano la faccia, le mani che tremavano, nascoste nelle tasche così lontane dal cuore da arrivare a toccarlo. Ma era felice.
Alle medie, una professoressa di italiano che aveva esposto alla classe tre lezioni, prima di trasferirsi nella città più vicina, aveva spiegato loro che, secondo Leopardi, la felicità fosse percepibile solo attraverso ricordi e attese.
Secondo Eva non era vero, ma lei aveva una strana tendenza a contraddire chiunque.
Francesco, in quelle lezioni, si era guardato le mani, sporche di inchiostro nero e screpolate dal freddo, chiedendosi la quantità di felicità che avessero toccato in quelli che, allora, erano quattordici anni di vita.
Si era ricordato dei pomeriggi in cui la madre gli parlava dei numeri, quelle cifre che lei amava e che lui appena sopportava, di come gli sembrassero stupendi quando era lei a spiegarli.
Si era ricordato di quando, un pomeriggio di agosto, i genitori di Lara avevano portato lei, Eva e Francesco al mare. Erano poco più che bambini, quell'età in cui tutto sembra avere un senso galleggiante in un enorme alone di surrealtà. Tirava un vento lieve, odorante di sale e aghi di pino. Le onde si allungavano sulla battigia, Eva mangiava un gelato e rideva, un po' perché colava tutto a causa del caldo, un po' perché Lara si lamentava delle palline appuntite che le si infilavano tra le dita. Erano da soli, loro tre, il sole calante che gli scottava le spalle, mentre si promettevano che avrebbero raggiunto la foce del fiume oltre le dune prima del tramonto.
Si era ricordato della neve a Natale, di quella volta in cui, lui e due compagni di classe, si erano trovati in un acquazzone senza nulla sotto a cui ripararsi, di quanto avevano riso, appiccicati sotto alla tettoia di una cascina odorante di fieno.
Questo era stato quello che gli era sembrato più vicino alla felicità, o, almeno, era stato questo in terza media.
In ogni caso, non si era accorto di quanto si sentisse bene in quelle occasioni, prima di essere costretto a ripensarci in seguito.
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Lux
RomancePer amore la gente fa cose strane. C'è chi stermina eserciti, chi piange per giorni, chi attraversa nazioni intere desiderando un solo bacio, chi legge libri in codice braille in lingue che non conosce. Francesco faceva parte di tutti e quattro i gr...