Coca Cola

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E camminavano accanto, l'uno all'altro. Terribilmente vicini, ma separati da qualcosa che non sapevano definire.

Axel lo aveva seguito d'istinto, senza esitare, le labbra sottili che dipingevano un sorriso silenzioso e spaventato dall'idea di esagerare.

Francesco lo aveva condotto giù per una rampa di scale di legno che giungeva a un piccolo cortile interno, costellato di erba verde e cespugli di fiori rosa. Era un posto carino, sembrava uscito da un libro passato di moda negli anni settanta.

Nel cortile c'erano tre tavolini bianchi, disposti come a creare un triangolo irregolare. Solo uno era occupato da una coppia di motociclisti, mentre gli altri due erano stati adibiti ad attaccapanni dalla gente in piedi tutt'intorno. Francesco rivolse oltre lo sguardo e la sua attenzione fu catturata da un muretto a secco, fatto completamente di tufo chiaro. Era accostato a un cespuglio più piccolo degli altri, e persino i fiori che lo abitavano sembravano appassire.

Decise che si sarebbe seduto lì, per rendere quei piccoli boccioli rosa, ancora bambini, fieri del loro essere vivi. E anche perché voleva mettersi il più lontano possibile da qualsiasi forma di vita umana.

Perché lui, in quel momento, emanava libertà da tutti i pori. Ed era strano, a pensarci. E voleva che ci pensasse anche Axel.

Si guardava intorno, come a cercare di capire perché accidenti fosse felice. Perché sentisse qualcosa illuminargli la pelle ogni dieci secondi.

Osservava i fiori, i lampioni che emanavano una luce trasparente, le bottiglie di Coca Cola disposte sotto un piccolo gazebo ondeggiante per il vento.

Sapeva che ci fosse un'enorme differenza tra l'emanare luce e l'illuminare.

E lui si sentiva illuminato da una presenza che continuava a negare a se stesso. Una presenza che considerava lontana anni luce, ma che lo accecava con la sua innaturale vicinanza, una vicinanza che non lo faceva respirare e di cui lui voleva soltanto la profondità, anche solo per vedere come va.

In un angolo del giardino c'era un gazebo di un metro quadrato, su cui qualcuno aveva messo un modesto tentativo di rinfresco. Francesco ci si fiondò, perché la situazione era già complessa di suo e lui sembrava intenzionato soltanto a complicarla di più.

Ed era eccitato dall'idea di non poter più farci niente.

Si fermò qualche istante a guardare le caraffe sul tavolino, le diverse bibite colorate e le bollicine della Coca Cola. Non gli piacevano, quelle bollicine lì. Le gocce d'acqua nella doccia erano più affascinanti: si univano, si staccavano, danzavano come ballerini su un palco troppo stretto. Le pareti scivolose erano ampie, eppure le goccioline sentivano il bisogno di toccarsi. Come quelle due coccinelle che avevano necessità l'una dell'altra per raggiungere il fiore.

Le bollicine, invece, salivano da sole.

Non disse nulla, e prese la bottiglia di vino rosso che stava dietro a una ciotola di patatine. La sollevò un istante, poi guardò Axel: <Vuoi?>

E Axel gli rivolse lo sguardo più confuso, spaesato e sorpreso del mondo.

Francesco pensò a quanto accidenti Axel potesse stargli simpatico.

Gli sorrise: <Sei tipo astemio oppure hai un trauma dall'altra sera?>

Il fatto era che Axel non si riteneva nemmeno capace di definirsi astemio. Non aveva l'età legale per bere, fine. Non si era mai fatto tante domande. E quello di qualche sera prima non era stato un trauma. Era solo stato poco piacevole. Ma poi era arrivato Francesco. E Axel si sarebbe ubriacato venti volte per venti giorni, soltanto per sperare di vedere Francesco ogni tanto.

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