Pallini

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<Sai che portano fortuna solo quelle con sette pallini?>

Il ragazzo sorrise, passandosi la mano umida tra i capelli: <E quella quanti ne ha?>

L'indice candido di Eva si mosse un po' per non far cadere la coccinella, la inseguì durante ogni sua scattante azione, come se la giovane e l'insetto fossero note diverse della stessa composizione musicale: <Cinque.>

Francesco si portò una mano al volto, coprendo gli occhi con la punta delle dita e la bocca con il palmo, trattenendo una risata che, tuttavia, le voleva silenziosamente mostrare.

<Cretino.>

Risero entrambi, per un po'. Andava sempre così: Eva spingeva Francesco, Francesco schizzava Eva con l'acqua fredda del lago, e tutto si ripeteva all'infinito, in giorni che si riversavano in mesi che si riversavano in anni.

Il lago era il loro posto, l'unico luogo dove si allontanavano da qualsiasi altra cosa per gettarsi a capofitto in quel piccolo mondo che si erano creati col tempo. Definivano così quella sensazione di oblio che solo la realtà sapeva dare loro. Il lago sembrava non essere reale. Nessuno, oltre i due, lo frequentava abitualmente e, coloro che avevano intrecciato le loro vite con le acque trasparenti, avrebbero visto quel luogo di sfuggita, lo avrebbero visitato come si visita un museo, avrebbero fatto una foto, un video che non avrebbero più rivisto.

Sarebbe stato un ricordo dimenticato in pezzettini di memoria persi.

<Comunque dovresti smettere di credere nella fortuna.>

Eva si sollevò sui gomiti che sprofondarono nell'erba morbida di inizio giugno: <Perché?>

<Perché è una cazzata, non sarà una coccinella a dirti quanto sarai felice.>

L'odore dell'acqua, dell'erba e dei fiorellini di campo invase le loro narici come un fascio di luce. Era un sentirsi accesi in cui facevano fatica a credere.

La ragazza rimase in silenzio, osservò Francesco ed esaminò il suo sguardo perso tra le cime dei pioppi: <Lo so.>

Aspettò una risposta, ma le labbra del giovane rimasero irrimediabilmente serrate. Francesco non parlava molto, aveva tanto da dire e le parole non gli bastavano mai. Quindi Eva lo fece per prima: <E tu lo sai che penso io?>

Francesco si voltò verso di lei e attese che continuasse l'affermazione a cui sembrava aver pensato a lungo.

Eva lo spintonò piano e gettò le braccia verso l'alto. Sorrise, perché il suo volto era fatto per sorridere: <Che non capisci niente, è finita la scuola, potresti fare quello che ti pare e sei qui a sminuire coccinelle.>

<Non mi pare mica che tu stia facendo qualcosa di più intellettualmente o spiritualmente interessante, sai?> Francesco mosse le dita nell'erba verde, fresca come acqua di sorgente e morbida come una carezza: <Poi non lo so, magari mi sbaglio.>

Eva si lasciò cadere all'indietro, facendo scivolare i capelli scuri sul volto: <Io sto creando speranze, tu me le stai distruggendo. Brutto stronzo, tra l'altro.>

La voce di Francesco si colorò di sarcasmo, in un modo dolce, tenue, un modo che sapeva di miele: <Tu crei speranze con coccinelle dai cinque pallini? Triste, tristissimo.>

Lei spalancò gli occhi celesti: <Sì.>

Francesco l'aveva sempre ritenuta bellissima. Aveva le mani sottili, fragili, lui provava paura ogni volta che doveva toccarle. I boccoli scuri le coronavano il volto e cadevano giù, fino alle spalle, fino alla schiena. Li aveva tagliati da sola in un modo asimmetrico, non sapeva neanche bene lei perché. Era intelligente, brillante, come un'onda del mare che si infrange contro gli scogli perché sa di essere in grado di farlo. Camminava un passo avanti a tutti, nella tranquillità di chi possiede un'empatia fuori dal comune, fuori da qualsiasi normalità.

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