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Francesco non era esattamente la persona più estroversa sulla faccia della Terra.

Una volta aveva partecipato a un pranzo con la famiglia di Eva, e ancora lo ricordava come un'esperienza turbante. Lei lo aveva pregato di accompagnarla per non lasciarla sola con i genitori, ma, quando si era trovato davanti una dozzina di parenti, aveva sentito il bisogno di ricordarle la differenza tra quattro e sedici persone. Il peggio era venuto dopo, quando era rimasto da solo con il cugino maggiore di Eva. Aveva uno o due anni in più di lui, portava un paio di occhiali spessi ed i capelli scurissimi e disordinatissimi. In quindici minuti, nessuno dei due aveva detto una singola parola. Fu imbarazzante, ma non gli importò particolarmente, dal momento che era certo di non doverlo più rivedere. Si era concentrato sulla disposizione dei libri sulla mensola della camera di Eva, mensola che, tra l'altro, conosceva a memoria, cercando nell'alternanza dei dorsi qualcosa di nuovo. L'intera stanza gli sembrava così familiare da respingere ogni suo sguardo, sapeva benissimo quale sarebbe stata la posizione di ciascun pupazzo, così come avrebbe saputo recitare senza problemi i colori dei quaderni impilati caoticamente sulla scrivania.

Gli sembrava che fosse tutto perfetto, al proprio posto. La presenza ingombrante del ragazzo, al contrario, lo destabilizzava. Avrebbe avuto tante cose da dire, ma si allontanava sempre più dalla capacità di farlo. Avrebbe potuto parlare delle rondini, delle quali studiava la traiettoria per poter anticipare i volteggi sul cielo, gli avrebbe potuto dire che trovava estremamente carina la sua maglia dei Pink Floyd. Eppure stette zitto. Quando aveva così tanto da dire, gli sembrava che le parole si seccassero nella gola, le sentiva disidratarsi e sfaldarsi, per poi restare lì, come carcasse di ciò che avrebbe potuto essere.

Con Axel, la cosa era diversa.

Con Axel, gli sembrava un po' tutto diverso.

Certo, lo destabilizzava nove volte in più di qualsiasi altro, certo, aveva il quadruplo di idee per parlargli ed era piuttosto sicuro che egli non avrebbe mai smesso di ascoltarlo, ma si era bloccato, come un vagone delle montagne russe che, dopo aver lentamente risalito i binari, facendo accelerare il battito ad ogni metro, si ferma, un attimo prima di lanciarsi verso il basso e togliere il respiro a tutti i passeggeri.

Non riusciva più a guardarlo in faccia.

Pregustava già la sensazione del getto d'aria a invadergli le narici, in un misto di piacere euforico e tremolante paura.

E gli dispiaceva così tanto che avrebbe volentieri sbattuto la testa contro il muro, pur di costringersi a voltarsi e scorgere la sua espressione.

Grattava con un'unghia la pelle molle e grinzosa dell'indice, prima ripetendosi quanto poco significasse un bacio sulla guancia, poi chiedendo a se stesso e al suo inspiegabile subconscio cosa accidenti lo avesse spinto a fare una cosa del genere.

Magari è una cosa francese, pensò, magari è il loro modo per dire "ora siamo amici".

Francesco immaginò la linea che separava l'essere amici da qualsiasi altra cosa. Gli appariva confortevole, affascinante, simile alla radura che svettava oltre la macchia di castagni e arbusti secchi, un po' dopo la pozza d'acqua. Pensò che ce lo avrebbe potuto portare, un giorno, se fossero rimasti amici. Pensò che, magari, avrebbe guardato le rondini con lui, se avesse voluto. E gli avrebbe potuto tenere la mano, se non gli fosse sembrato strano, perché i cieli diventano piccoli infiniti, se c'è qualcuno disposto a guardarli, ad occhi chiusi, con te.

È così per forza, si ripeté, mentre la pelle cominciava ad arrossarsi e fargli male.

Ricordava perfino che qualcuno gli avesse parlato di baci alla francese -no, cretino, non è quello.

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