Priorità

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Non fumava mai e, quando aveva sentito di essere vincolato dal desiderio di vedere la sigaretta consumarsi, aveva provato subito ad eliminare l'abitudine. C'erano, tuttavia, delle sere in cui non ne poteva fare a meno, vedeva quei momenti né come neri, né come bianchi, erano grigi, grigi come il fumo che gli dava la nausea e che puzzava da far schifo. Usciva sul balcone, poggiava i gomiti sulla ringhiera e aspettava che il sole scomparisse dietro l'orizzonte, poi fumava e non arrivava mai a chiedersi perché lo facesse. Preferiva non arrivare a chiedersi un sacco di cose.

Gli piaceva il colore rosso del mozzicone, solo quello. Ardeva in silenzio e si consumava piano, senza che nessuno se ne accorgesse. Quando fumava, Francesco pensava di star bruciando lui stesso, come qualche scienziato che si era rifiutato di abiurare e che la Chiesa aveva mandato al rogo. Ardeva da eretico, da peccatore, ed era una consapevolezza dolorosa e tranquillizzante, come se, solo così, lui potesse darsi pace.

Qualche giorno prima, aveva trovato una scusa per non uscire con Eva e lo pseudo-pretendente. Lei sembrava essersene fatta una ragione e gli aveva ribadito di non avere assolutamente intenzione di passargli la versione. Francesco l'aveva ritenuto onesto.

Le aveva parlato del ragazzo delle coccinelle e, nel tempo di due giorni, era venuto fuori che fosse il fratello dello pseudo-pretendente. Pseudo-pretendente che si chiamava Lukas, tra l'altro. Con la K. Francesco riteneva quel nome terribile, quasi scabroso. Gli veniva da ridere tutte le volte che qualcuno lo nominava ed erano inutili i tentativi di Eva di dirgli che è perché è francese, coglione. Il fatto di essere francese non lo autorizzava ad avere un nome così brutto, Francesco ne era piuttosto convinto.

Ed era venuto fuori pure che l'altro fratello, quello delle coccinelle, si chiamasse Axel. Con l'accento sulla E. Perché era, contro ogni aspettativa, anche lui francese e quindi sembrava autorizzato ad avere un nome tanto brutto quanto quello dell'altro. Francesco aveva chiesto a Eva come si chiamassero anche i restanti tre fratelli e lei gli aveva detto di non saperlo, e questo era un peccato perché lui moriva dalla voglia di conoscere i nomi di tutta la banda.

Sua madre l'aveva chiamato Francesco perché, evidentemente, era il nome più banale che le fosse venuto in mente. Forse aveva fatto una lista dei dieci nomi più diffusi in Italia, si era tappata gli occhi e aveva poggiato l'indice su uno a caso. Sì, doveva essere andata proprio così.

Quel pensiero gli fece ripromettersi che, durante la cena, avrebbe chiamato la madre. Non la vedeva da giorni, ed era difficile ammettere quanto gli mancasse. Era difficile anche solo pensare a quanto lei fosse lontana, in un bilocale arredato unicamente con anonimi mobili Ikea, in un anonimo quartiere di una città che, di anonimo, non aveva nulla. Perché Roma era bella alla follia, e sua madre era bella tanto quanto lei.

La sigaretta si ridusse a un pezzettino di carta e Francesco la spense sul davanzale. Si disse che vivere per settimane intere da solo aveva i suoi pregi, ed uno di quelli era poter fumare senza che nessuno se ne accorgesse. Si disse anche che questo, come pregio, faceva abbastanza pena.

Perché aveva diciassette anni, la scuola era finita, era sabato e avrebbe potuto essere ovunque, ovunque tranne che in casa sua, da solo, con una sigaretta di pessima qualità e l'abbaiare di un cane che martellava in lontananza. E non era nemmeno vero che non gli piacessero le feste, anzi. E il vino e la tequila erano perfetti per chi si faceva spegnere dalla timidezza più intensa che fosse mai esistita. Ma Eva usciva con Lukas, Lukas si portava dietro Axel e Lara si appiccicava a lui in tempo zero. Francesco non aveva abbastanza soldi da spendere in un numero sufficiente di shot per parlare a qualcuno con cui non avesse confidenza.

Perché, ovviamente, era venuto fuori che i francesi fossero belli. E che Axel fosse una sorta di principe che sorrideva e arrossiva come se, in vita sua, non avesse mai ricevuto alcun tipo di attenzioni. Per di più, come se non bastasse, lui riusciva ad evitare lo sguardo di Lara con un'abilità sconcertante, e questo sembrava piacerle ancora di più. Francesco non avrebbe mai voluto trovarsi in mezzo a loro.

Provò a sedersi sul letto, cercando una posizione comoda in cui mettersi, soffocare e morire, poi decise di limitarsi a nascondere la testa sotto al cuscino e sperare di addormentarsi. Rimase fermo per dieci, venti secondi, poi squillò il telefono.

Numero sconosciuto.

Riattaccò, ripose la testa sotto al cuscino e tornò al suo sogno di soffocamento. Dieci, venti secondi e il telefono squillò di nuovo.

Numero sconosciuto.

<Che cazzo.> Provò a non reagire, a fare finta che non fosse successo niente e continuò a guardare la schermata del cellulare, sforzandosi di rimanere impassibile. La strategia non ebbe alcun tipo di riscontro perché il telefono non smise di suonare, allarmato come se fosse appena morto qualcuno.

Contò fino a cinque, poi fino a sei, poi rispose.

Non fece in tempo a dire nulla perché, dall'altra parte, una voce esultò: <Oh, hai risposto.> Ed era un'esultanza strana, quasi sollevata, e Francesco sentì una mano tremare appena. Perché non era complicato capire chi fosse a parlare, e la cosa era più odiosa del previsto.

<Quando ti ho dato il telefono per chiamare chi ti pareva non ti ho dato l'autorizzazione a tenerti il numero, sai?>

L'altro attese qualche istante, il silenzio profondo ad aleggiare tra loro.

<Vabbè, ma non è mica che ti ho rotto le palle. Non ti avrei chiamato se non fosse stato importante.>

E Francesco, in un attimo, valutò tutte le possibilità che avrebbero potuto portare Axel con l'accento sulla E a chiamarlo, a quell'ora, senza mai avergli rivolto seriamente la parola. E, all'improvviso, gli si gelò il sangue nelle ossa.

<Che è successo?>

Axel balbettò qualcosa, Francesco non lo capì e gli chiese di ripetere. Gli tremava un po' la voce.

<Niente di che, sul serio. Sono io che non so gestire la cosa.>

<Quale cosa?>

Il ragazzo impiegò più del dovuto a rispondere, perché si vergognava, ed era così palese da sembrare quasi divertente.

<Lukas ha preso da bere, forse un pochino troppo. E ora loro sono tipo partiti. Con la testa, intendo. Qualcuno ha vomitato. Ma non penso sia niente di che, sul serio. Però non mi era mai successo, e non so che fare perché non so gestirli e ho paura che tipo si sentano male, o che facciano cose che non dovrebbero fare, che faccio?>

E la voce di Axel, preoccupato, gli sembrò così ridicola e divertente da spingerlo a sorridere: <Sono abbastanza grandi per gestirsi da soli, tu fatti i cazzi tuoi e stai tranquillo, tanto a loro adesso passa.>

Axel non si preoccupò a mascherare l'evidenza che la risposta di Francesco non lo avesse soddisfatto. Un secondo prima era un cerbiatto spaventato, quello dopo una specie di mantide religiosa pronta a decapitare qualcuno: <Non posso farmi i cazzi miei! Questi tra un po' scopano tutti e tre.>

<Buon per loro.>

<Vaffanculo.>

Axel chiuse la chiamata e Francesco rimase immobile, con il telefono in mano e la sensazione di aver appena sbattuto la testa contro un muro. Che caratterino.

E ci provò, ci provò sul serio ad aspettare, ma si rese presto conto di essere sommerso dai sensi di colpa e di avere voglia di soffocarsi di nuovo. Pensò ad Axel, solo con tre ubriachi, gli fece pena e lo richiamò.

<Puoi venire, per favore? Poi ti giuro che non ti chiedo più niente, è solo che non sapevo chi chiamare ed Eva e Lara dicono che sei il loro migliore amico, ti prometto che non ti chiamo più, davvero.> Axel gli esplose nell'orecchio, come se avesse avuto il terzo cambio di umore nel giro di un minuto.

E, se Francesco decise di raggiungerli, lo fece solo perché mosso da un profondo affetto verso Eva e Lara, assolutamente non perché convinto da un ragazzino con un nome terribile e un carattere ancora peggio in preda a qualche tipo di crisi ormonale.

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