Prologo

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Ricordo quel 16 febbraio come fosse solo ieri.
La mia vita si è fermata a quel 16 febbraio.

Pioveva, e forte. La strada era bagnata e il terreno scivoloso.
Presi tutto quella volta, prima di uscire di casa: i vestiti di ricambio, l'acqua, gli elastici per i capelli, tutto.
Tranne una cosa: le scarpette.
Quelle maledette scarpette.

Tante volte nemmeno ce ne rendiamo conto, ma basta anche solo una piccola dimenticanza, un piccolo dettaglio che può sembrare anche insignificante... e la vita cambia completamente.

Quella mattina mi sarei dovuta alzare, fare la mia amata colazione preparata da mia madre, discutere con mio fratello, prendere lo zaino e averci messo tutto l'occorrente: vestiti, acqua... e, infine, le scarpette.

Ma non lo feci.

Non ricordo bene se fui io a lasciarle in casa o se mi fossero cadute dalla borsa, ma poco importa.
Quelle scarpette non vennero mai messe dentro a quello zainetto, e i miei genitori dovettero tornare indietro a riprenderle.

E pensare che se io e mia sorella non fossimo uscite prima dalla macchina per entrare alla scuola di danza ora nemmeno noi saremmo vive.
Fu mamma a dirci di cominciare ad andare, e disse a Scarlett di accompagnarmi e aiutarmi a cambiarmi, che loro sarebbero andati a prenderle e in un attimo sarebbero tornati.

Ma così non fu.

Alcuni dicono che il destino sia già scritto, da qualche parte. Atri dicono che siamo noi a scriverlo.
Se quest'ultima affermazione dovesse essere vera, allora io sarei l'artefice del mio stesso incubo. Un incubo che mi perseguita nei meandri più profondi della mia mente.

Quel giorno, per colpa mia e di una mia piccola dimenticanza, persi i miei genitori.
Quel giorno, scrissi la pagina nera del mio libro della vita.

Che senso aveva la vita? A cosa serviva continuare a vivere?
Fisicamente c'ero, ma la mia mente no. Non era ferma su un punto, ne tanto meno vagava chissà dove.
Semplicemente era come se... non esistesse.
Se continuavo a vivere era solo perché il mio corpo lo faceva. Prendeva aria da solo, si riempiva i polmoni da solo.
Più volte avrei voluto che non lo facesse, ma non potevo controllarlo né tanto meno sapevo come impedirglielo.
Mi chiedevo spesso come facesse il mio cuore a battere ancora, dopo che il loro si era fermato già da tempo.

Odiavo tutto. Tutto ciò che riguardasse la vita. Perché era stata proprio questa a portarmeli via, entrambi.

A scuola mi chiusi in me stessa. All'uscita vedevo tutti i genitori arrivare.
Tutti, tranne i miei.

Era la nonna che si occupava di me, di prepararmi la merenda da mangiare nella pausa, di farmi giocare, ridere. Ma non riuscivo... finivo sempre per regalarla a qualcuno.
È sempre stata la mamma a dirmi che il cibo non si sprecava, quindi lo offrivo agli altri, e in compenso quando tornavo a casa la nonna non poteva accorgersi di nulla.
Pensava mangiassi, e io ero contenta che lei lo credesse.

Il mio stomaco era chiuso, così come qualsiasi spiraglio di emotività.
Non riuscivo a credere che tutto questo stesse capitando a me.
Mi sembrava... surreale.
Tornavo a casa ogni giorno nella speranza di ritrovarli dove li trovavo sempre: mamma, sempre bella, sorridente e profumata di fiori che parlava con papà di qualche nostro guaio. Papà che sarebbe stato pronto a sgridarci, per poi ascoltare i consigli amorevoli che ci riservava nostra madre.

Ma questo non capitava più, ormai.

I giorni dopo l'incidente furono i più difficili. Non realizzavo nulla e nel mio cuore c'era sempre uno spiraglio di luce, qualcosa che mi diceva "speraci", "credici".
Ma col passare dei giorni mi resi conto che non li avrei mai più rivisti.
Più speravo, più ci rimanevo male.
E da lì, venne solo il peggio.

Non so come definirla, forse rabbia, nervoso, disperazione... insomma, qualcosa di estremamente negativo si abbatté su di me.

Odiavo tutti, dalla prima all'ultima persona.

Chiunque mi si parasse davanti non riceveva nient'altro che cattiveria dalle mie risposte.
Preferivo non parlare con nessuno, in realtà. Ma alle volte era inevitabile che qualche bambino, qualche maestra o qualunque altra persona mi rivolgesse la parola.
Smontai qualsiasi amicizia, qualsiasi relazione.
Mi chiusi in me stessa, era l'unico luogo in cui volevo stare.
Non parlavo con nessuno, e le poche volte che lo facevo ne uscivano solo cose brutte.

La scuola non andava.
Non andava proprio per niente.

Le maestre sapevano che non facevo mai i compiti, ma non mi dicevano nulla. Ai tempi non capivo perché non si arrabbiassero, poi crescendo mi resi conto che non volevano causare altro dolore ad una bambina che aveva appena perso i suoi genitori.
Si limitavano a chiamare la nonna che, poverina, con molta pazienza mi stava dietro e tentava di ogni.

Ma io non ce la facevo.

I compiti continuavo a non farli, alle maestre non rivolgevo parola e se qualche bambino mi faceva arrabbiare gliene combinavo qualcuna. Insomma, anche la mia condotta non era messa per niente bene.
L'unica cosa che mi salvò e me la fece passare liscia era il fatto che fossi una bambina.

Potevo cavarmela e andare avanti, senza che rimanessi indietro con gli anni.

Ma, ovviamente, tutti quelli che non studiano prima o poi sono destinati a restare fermi allo stesso punto.

Le maestre consigliarono a mia nonna di lasciarmi un anno indietro, ma che se mi fossi ripresa e fossi riuscita a fare due anni in uno non ci sarebbero stati problemi a rimettermi in pari.

Ma non mi misi mai d'impegno per farlo.
Anzi, me ne fregai totalmente. E così rimasi un anno indietro.

Non mi interessava riprendermi, riprovare a vivere o sforzarmi di fare qualcosa che per me non era altro che forzato.
Non volevo accettare nemmeno un aiuto.

Ma in realtà, dentro di me... quella bambina ne aveva bisogno.

Devo ammetterlo: ad aiutarmi maggiormente... fu Jace.

Entrambi ci addossavamo una colpa così pesante che era impossibile reggere da soli.
Ci fu un evento in particolare che mi riaccese una lucina dentro. E fu lì che capii che dovevamo aiutarci. Dovevamo smistarci il dolore e riportare pace nelle nostre vite. Quando riaprii gli occhi, in ospedale, sentii qualcuno stringermi la mano.

Era mio fratello.

Stava pregando in qualsiasi modo perché non mi capitasse nulla.
Era in lacrime, lui...! Che non l'avevo mai visto piangere nemmeno per sbaglio.
La sua espressione disperata mi risvegliò qualcosa all'interno.
Mi accorsi di quanto fossi stata stupida.
Avevo già perso i miei genitori, e non mi stavo nemmeno rendendo conto che stavo per perdere pure quelle poche cose belle che mi erano rimaste...

"Farò di tutto per farti parlare, per farti sempre avere l'ultima parola. Non voglio mai più sentirti zitta come hai fatto per tutto questo tempo. Ti voglio vedere vivere, Emma. Ti prego..."

Queste sono le parole che mi rivolse mio fratello, in lacrime.

Da lì il nostro rapporto non cambiò: continuammo a farci i dispetti, gli scherzi e a risponderci male.
Però lo sapevo... lo faceva per me. Era il suo modo di dimostrarmi affetto, di dirmi "ci sono io", di spronarmi a diventare più forte.

Se non fosse stato per mio fratello, non saprei dire se ora sarei ancora qui.

Il Migliore Amico di mio Fratello Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora