Capitolo trentanove

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«Papà, tu hai il numero di Alicia?», chiesi, avvicinandomi a lui mentre puliva il piano cottura

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«Papà, tu hai il numero di Alicia?», chiesi, avvicinandomi a lui mentre puliva il piano cottura.

«Certo. Vedi sul mio telefono.»

Feci come mi disse e lo trovai. Lo copiai e lo inviai al mio numero, ringraziai mio padre e tornai in camera.

Dopo averla chiamata, ricevetti l'invito di andare a casa sua per parlare di mia madre. Raggiunsi casa sua circa quindici minuti dopo.

«Bea! Ciao, come stai?», mi chiese, abbracciandomi e accogliendomi in casa.

«Io bene, tu?»

«Tutto okay. Mi ha fatto molto piacere ricevere la tua chiamata», disse, sorridendomi dolcemente.

«Vieni, accomodiamoci in salotto», affermò poco dopo, accompagnandomi nell'altra stanza.

Mi sedetti su una poltrona bianca mentre lei prese posto sul divano di fronte a me.

«Puoi chiedermi quello che vuoi, Bea.»

La prima domanda che le rivolsi fu: «Quand'è stata l'ultima volta che l'hai vista?»

Un sorriso malinconico comparve sul suo volto. «Una settimana prima che tuo padre ci comunicasse la sua scomparsa. Facevamo delle uscite a quattro ogni settimana. Avrei dovuto capire che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei vista. Ricordo che era nostalgica. Ha parlato dei tempi passati, dei viaggi che abbiamo fatto insieme, ma non ci ho dato molta importanza. Ha però detto una frase che mi ha colpita particolarmente: vorrei che questa serata durasse per sempre. Eppure era una come le altre. Non accadde niente di particolare quindi non compresi. Un'altra cosa che mi viene in mente è che non si sentiva bene. Disse di avere mal di testa perché si era stancata a lavoro.»

«Me lo ricordo anch'io», confessai. «Nicola mi ha spiegato il motivo per cui non ti sei più fatta sentire e non c'è bisogno che aggiungi altro. Lo capisco.»

«Grazie, Bea. La maggior parte delle persone mi critica quando lo dico.»

«La maggior parte delle persone giudica senza nemmeno sapere il motivo per cui si fa qualcosa. Non sanno entrare nei panni di qualcun altro. Ognuno reagisce a proprio modo ed è giusto così», la rassicurai.

Mi sorrise. «Sei una donna così matura. Anche caratterialmente somigli a tua madre», disse sorridendomi. Poi aggiunse: «Mi sono persa sei anni della tua vita. Raccontami, cosa mi sono persa?»

«Nel periodo in cui mia madre è scomparsa mio padre aveva perso il lavoro e io stavo per iniziare l'ultimo anno di scuola. Così decisi di cercare un lavoro. Lo trovai al Pedron Caffè, dove lavoro attualmente. Verso febbraio mio padre ha trovato un lavoro in un tabacchino. Avrei potuto smettere di andare al bar ma decisi di continuare. Mi trovavo molto bene. Lì ho incontrato la mia seconda famiglia e ho deciso di continuare a lavorare nel bar. Io lavoravo la mattina, mio padre il pomeriggio, così che si trovasse qualcuno con mia sorella. Alcuni giorni però ho il turno continuo e mio padre non c'è, quindi rimane con Ginevra, la mia migliore amica.»

«Sono contenta che ti trovi bene a lavoro. Aspettami qui, vado a prendere una cosa che vorrei tu vedessi», affermò, alzandosi e andando al piano da sopra.

Nel mentre aspettavo che tornasse, avvisai mio padre:

Beatrice

Sono da Michele. Sto parlando con Alicia, poi ti spiego tutto.

La sua risposta non tardò ad arrivare:

Papà

Tranquilla, ci vediamo dopo.

«Eccomi», disse la mamma di Michele con in mano un album di foto.

La raggiunsi sul divano e, dopo essermi seduta vicino a lei, lo aprì.

C'era una foto di mio padre con mia madre, Alicia e Nicola.

«Questa è di undici anni fa. Quella mattina ti trovavi a scuola, come Michele, e avevamo deciso di fare un picnic.»

«Mamma voleva farne uno ogni domenica. Ne andava matta.»

«Molto. Mangiammo una crostata fatta da Michele», pronunciò divertita. «Ti avrà parlato della sua passione per la cucina», ipotizzò.

«Sì. Mi ha raccontato di come da bambino guardava programmi di cucina invece dei soliti cartoni animati», spiegai.

«Già», commentò divertita. «Tornando a parlare di quella giornata, era stata fantastica. Ci divertimmo moltissimo, soprattutto per le battute di tua madre.»

«Ecco da chi ho preso il mio magnifico senso dell'umorismo.»

Sorrise, poi girò pagina. «Il tuo diciassettesimo compleanno. Questa foto la custodisco con molta cura. Ci tengo molto.»

Nella fotografia c'ero io che festeggiavo l'ultimo compleanno con mia madre. Accanto a me c'erano Alicia e Nicola.

«Com'è possibile che non abbia mai conosciuto Michele?», le domandai confusa.

Mi guardò e, con aria triste, domandò: «Ti ha raccontato di cosa ha passato a scuola? Con il bullismo intendo... »

Scossi la testa, triste al sentire quella notizia.

«Quando andava alle medie era il più bravo della classe, tranne in matematica, ma poi grazie a un professore recuperò all'anno successivo. Comunque, non veniva bullizzato per la sua timidezza, perché indossava vestiti di marca o cose del genere, ma per la sua intelligenza. Gli altri si avvicinavano al suo banco, gli parlavano, lo includevano nelle conversazioni e quando tornava a casa era felicissimo. Ci raccontava con così tanta gioia questa cose che anche le brutte giornate si riempivano di luce», affermò sorridendo malinconica.

«Ma tutte quelle gentilezze, quelle chiacchiere divennero motivo di manipolazione. Ieri ti ho raccontato della mia famiglia, perché non mi vuoi aiutare con i compiti? Dovresti ricambiare il favore o sbaglio? O peggio: ti ho presentato un mio amico, ti ho aiutato, devi fare anche tu qualcosa per me. Scoprimmo di quello che passò alle medie solo qualche anno dopo. Lo manipolavano per i propri scopi personali. Da bambino Michele era bravo, gentile con chiunque, non riusciva a dire di no. Fortunatamente aveva Leonardo che gli stava vicino e l'ha aiutato a farsi rispettare. Poi è arrivata Martina. Immagino ti abbia raccontato come l'ha conosciuta.»

«Sì, ne abbiamo parlato.»

«Il motivo per cui non l'hai mai visto prima è che non voleva mai uscire. Si chiudeva in cucina per ore e ore, rifugiandosi nel mondo dei dolci. So che capisci la sensazione. Ricordo che lo facevi anche tu per non pensare a tua madre, ma con i libri. Tuo padre l'ha detto a Nicola, che l'ha raccontato a me.»

«Ognuno ha il proprio regno, no?» replicai.

«Sì. Hai proprio ragione.»

Le sorrisi, prendendole una mano in segno di vicinanza, mentre continuammo a sfogliare l'album.


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Perdersi per ritrovarsiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora