Capitolo quarantatré

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Erano passati cinque giorni dall'ultima volta che vidi Bea

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Erano passati cinque giorni dall'ultima volta che vidi Bea. Mi aveva parlato della scomparsa della madre e quando lo dissi ai miei si mostrarono sorpresi perché, a detta loro, Bea non era mai stata una ragazza che si apriva facilmente con le persone, soprattutto su sua madre.

Nei giorni seguenti mi capitava di ripensare alle sue parole e al dolore che le attraversava gli occhi mentre me ne parlava. Non potevo nemmeno immaginare quello che avevano passato lei e la sua famiglia. Pensai a quante volte l'aveva chiamata, a quanto la sua speranza diminuiva ogni volta che il telefono squillava ma non riceveva risposta, o alla paura provata nei giorni seguenti alla sua scomparsa.

Ipotizzai che il motivo per cui la sera del suo compleanno si trovasse sola a festeggiarlo fosse perché se l'avesse festeggiato con la sua famiglia avrebbe sentito maggiormente la mancanza della persona che voleva al suo fianco e che non era presente in un giorno così importante. Mi venne in mente quella volta in cui chiesi a Giuseppe, il padre di Bea, di sua moglie. Lui mi disse che era in viaggio per lavoro e, capendo che era una bugia, decisi di non chiederglielo più. Ammettere qualcosa ad alta voce lo rende più reale di quanto lo sia nella realtà.

Non era l'unico a mentire a se stesso.

Dopo la morte di mia nonna non sono più tornato a Buenos Aires perché se l'avessi fatto avrei capito che era vero: lei non c'era più. E non ero pronto ad accettare quella verità.

Non è mai semplice ammettere che qualcuno a cui teniamo non è più tra noi: non la vedremo più tutti i giorni con quel sorriso che le illumina il viso, non avremo più la possibilità di abbracciarla quando la vediamo e nemmeno di dimostrarle il bene che le vogliamo. Per questo ci dicono di spendere più tempo possibile con le persone a noi care. Nessuno sa quando il loro tempo scade.

*

«Michele, ci sei?» chiese Giuseppe, che riconobbi dalla voce.

Uscii dal piccolo ufficio dell'officina e lo raggiunsi.

«Ehi, eccomi! Che succede?»

«Ehi! Dalla macchina esce il fumo bianco. Puoi dare un'occhiata?» disse.

«Certo. Ti faccio sapere quando è pronta.»

Prima che se ne andasse, lo fermai, dicendogli che sua figlia mi aveva parlato di Anna, sua moglie.

«Non avrei dovuto mentirti dicendo che era partita per un viaggio di lavoro», disse, mentre gli proposi di sedersi sulla sedia che si trovava vicino all'ufficio.

«Ci sono verità che preferiamo non ammettere perché fanno meno male.»

«È proprio così.»

«Due anni fa ho perso mia nonna. Era una donna d'oro, mi ha insegnato tutto, compreso il lavoro che faccio adesso. Quando è morta io ero distrutto. Non riuscivo a crederci, così sono tornato in Italia. Non so se lo sai, ma in Argentina la veglia dura nove giorni, che sarebbe il tempo secondo il quale l'anima del defunto rimane nel corpo prima di andare in aldilà. Bisogna stare nella casa della persona morta per tutti questi giorni in cui si seguono varie tradizioni. Infine c'è la sepoltura. E io non c'è l'ho fatta a rimanere mentre la mettevano sotto terra. Sono resistito per nove giorni ma il dolore era troppo forte e me ne sono andato. Vuoi sapere come mento a me stesso? Non tornando lì. Non ci vado da due anni, così mi sembra sia ancora viva».

«Mi dispiace, Michele. Di mia moglie non saprei cosa dirti. Immagino Bea ti abbia raccontato tutto. Trattala bene. Se ti ha parlato di sua madre devi ritenerti speciale. Non ne parla mai con nessuno. Sono contento che vi siete conosciuti.»

«Anch'io.»

«È stato bello parlare con te, ma devo tornare a casa. Gaia mi aspetta. Ci vediamo!»

«Contaci!»

Appena se ne andò, tornai in ufficio, sedendomi dietro la scrivania e finendo di compilare dei fogli. Dopo diedi un'occhiata alla macchina di Giuseppe, iniziando a lavorare per risolvere il problema.

«Michele, sono tornato!» esclamò mio padre.

«Ehi!»

«Di chi è questa macchina?», chiese, avvicinandosi a essa.

«Di Giuseppe.»

Lui annuì e andò nell'ufficio per cambiarsi.

«Perché non vai a farti una passeggiata? Finisco io qui», suggerì.

«Va bene. Grazie, papà!»

«Figurati», rispose, abbracciandomi e dicendomi di passare da casa più tardi per assaggiare un dolce fatto da mia madre.

«Volentieri! Ci sentiamo domani!» replicai, uscendo dall'officina dopo essermi cambiato.


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Perdersi per ritrovarsiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora