Capitolo 34

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Fissai il tettuccio. Contai fino a dieci.
Ma cosa stavo per fare?
Mi girai d'un lato da lì, e lo vidi concentrato, con gli occhi fissi sulla strada, accanto a me, proprio come volevo che fosse. Inevitabilmente sorrisi, travolta dall'acqua di quella onda che non immaginavo di sentire sulla mia pelle. Prima di tentare l'accesso alla scuola avevo deciso di non pensare al niente, di non farmi i soliti film in cui ritraevo come pensavo che sarebbe stato stare in quel posto, eppure un'idea in mente ce l'avevo: la realtà aveva superato le aspettative.

«Quanto manca?» chiesi guardandolo, lui incrociò il mio sguardo e si leccò le labbra, come faceva in continuazione, era il suo vizio, non mi dispiaceva affatto, ma se solo le altre ragazze avessero potuto smettere di commentare in modo brusco e aggiungerei, per niente fine, sarebbe stato meglio.

«Pochi minuti, sei stanca?» mi domandò svoltando l'angolo con il timone, scossi la testa. Sospirai e mi sistemai meglio sul sedile, Roma era stupenda alla luce del giorno, vedevo gruppi di amiche ovunque, e tante famiglie felici di turisti spiaggiati, cotanta bellezza però mi spezzava il cuore, perché io la fortuna di fare un viaggio con la mia famiglia non ce l'avevo avuta mai.

«Allora cos'hai? Ansia? Sì, è sicuramente quello» mi chiese per poi rispondersi da solo, e non per dire, ma anche giustamente. Avevo ansia per un motivo che neppure conoscevo, avevo paura di rimanere delusa: qui stava mettendo in ballo il suo passato.

Una camera raccontava tanto sulla persona che ci abitava, forse per gli altri non aveva lo stesso significato profondo che aveva per me, poiché non tutti passavano interi pomeriggi fra quattro mura gelide e tristi, ma in ogni caso diceva molto.

«È.. è questa?» mi affrettai a guardare dal finestrino come un bambino davanti al Centro Commerciale pieno di giocattoli in offerta a causa delle feste natalizie. Il suo era un palazzo molto accogliente, ai lati del cancello c'erano delle colonne in mattoni e una volta entrati potevo capire che c'era un giardino ben sistemato.

Un sorriso si fece spazio sul suo volto, non ci veniva spesso da quando aveva messo la sua passione prima di tutto, o quasi. Il cancello più grande e anche l'unico si aprì permettendo a Simone di parcheggiare la macchina, io intanto stavo squadrando per bene il posto. Davanti alla grande massa di cespugli che susseguiva il portone di ferro c'era un tavolo con dalle sedie in Bambù nero, poi la porta d'entrata. Lo stabile era a due piani, a differenza mia non abitava in un appartamento.

Uscii dalla macchina senza neanche parlargli, sembrava un sogno. Nonostante fossimo ancora in un freddo e tempestoso gennaio, c'era del sole, e quel poco mi bastava per essere improvvisamente di buon umore.

«Tua sorella lo sa che siamo qui?» lo guardai un po' preuccupata, lui scosse tranquillamente la testa per rispondermi. Rimase accanto al mio corpo e qualche secondo dopo alzò la sua mano per far sì che la incrociassi alla mia. Sorrisi.

Camminammo fino alla porta e suonammo il campanello, ovviamente ce n'era un solo. Era tutto così diverso in confronto alla dinamica e contemporanea Milano dove abitavo da qualche anno a questa parte. Non sempre era stato bello abitarci, ma aveva sicuramente caratterizzato la mia musica, il mio genere, e aveva dato un peso a tutto quello che andava poi a creare l'insieme.

Suonammo ripetutamente ma nessuna traccia di sua sorella, cacciai fuori il telefono e lo guardai male quando mi accorsi di una cosa.

«Simone, sono le undici meno venti, tua sorella è a scuola. Fa ancora le superiori. ─ roteai gli occhi, ─ Ma tu hai le chiavi, giusto?» lo vidi sorridere come per dirmi che non aveva importanza.

«Ci facciamo una passeggiata, che sarà mai. C'è bel tempo, dai, mi dispiace. Non ci ho pensato minimamente, ma mi prendo le mie colpe. Andiamo dove vuoi tu» si avvicinò alle mie labbra per lasciarmi dei dolci baci a stampo.

All'improvviso un ragazzo castano con un dilatatore all'orecchio aprì la porta, sembrava avere all'incirca l'età di Simone, ed era poco più basso. Si guardarono attentamente.

«Cosa ci fai a casa mia? Credevo che fosse finita da un pezzo con Sara, dovresti smetterla, lo sai? Giuro che ti ammazzo stavolta, figlio di puttana» lo spinse dentro. Entrò e in quel momento cominciò a tirargli vari pugni in pieno viso, tentai in ogni modo di fermarlo, ma era quasi impossibile.

«Simone, smettila cazzo!» gridai un'ennesima volta, lui rallentò, potevo sentire la sua rabbia in quel momento, era così forte. Il ragazzo cercò di alzarsi in piedi, fallendo miseramente.

«Christian, cosa sta succedendo? Chi era al citofono?» entrò Sara con un pacchetto di patatine fra le mani, rimase sbalordita quando mi vide, ma poi le cadde l'occhio verso il pavimento, dove quel ragazzo era sdraiato senza forze.

«Ora mi spieghi tutto questo, prima che io faccia una bella ed interessante telefonata ai nostri genitori per avvisarli della fantastica visita di questo bastardo» le rinfacciò.

«No, ora tu mi spieghi questo! Ma cosa cazzo fai? Hai perso la ragione?» si accasciò a terra per tentare di aiutarlo ad alzarsi. In qualche frazione di decine di secondi ce la fece, tenendosi in piedi grazie ad una sedia lì posizionata.

Si sedette cercando di respirare normalmente, Simone lo aveva conciato davvero male e non riuscivo a focalizzare la situazione. Sembrava una sorta di colpo di scena nei film, ma non lo era affatto. I due fratelli si guardarono negli occhi in una maniera inestimabile, la forte voglia di abbracciarsi dovevano trattenerla per un qualcosa capace di dividerli per qualche momento, una specie di ostacolo, nonché un ragazzo.

Preso dalla collera e dall'irritazione se ne andò e io per non essere di troppo fra Sara e quel ragazzo, con cui probabilmente aveva una storia interrotta prevalentemente e ripresa da quando Simone non era nei paraggi, lo seguii.

Entrammo in quella che doveva essere la sua stanza, certo che il mio primo ingresso lì me lo aspettavo molto differente a come si stava rivelando, ma non ero assolutamente motivata a lamentarmi dopo quello che tutti e tre stavano subendo.

«Scusa, mi dispiace davvero. Non avrei voluto passare una giornata con te così, è stato più forte di me. Ti prego, scusami» si sedette all'angolo del letto tenendo una mano sulla fronte.

«Sono l'unica persona con cui non devi scusarti, Simone. E lo sai»

«Dovrei scusarmi con lei perché la sto aiutando a non diventare una pessima persona? Quel ragazzo è uno stronzo, non se la merita affatto» sbottò furioso, trovandosi in disaccordo con ciò che gli avevo appena detto.

«E tu cosa sei? ─ ribattei, ma lui non osò rispondermi ─ Sei peggio di uno stronzo eppure mi fai felice, come la mettiamo? Cosa faresti se mio fratello ti impedisse di stare con me? E poi, a dirla tutta, io sono quello che tu non vuoi che Sara diventi. Guardaci, siamo felici, è questo che importa. Perché privarla di quello che riempe le vite di ognuno»

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