CAPITOLO XXXVII

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Namjoon aprì la porta dell'appartamento tanto silenziosamente che nessuno si accorse del suo arrivo. Vedendo un cappotto da donna appeso sull'attaccapanni alla sua destra, capì che Lara doveva essere in casa: non era ormai più una novità che fermasse a mangiare insieme a loro e che lei e Jin passassero lì la serata. 

Non aveva grandi opinioni sul suo conto; non sembrava una cattiva ragazza. Certo, forse, si era sempre immaginato diversamente la compagna di vita del suo amico; non avrebbe saputo dire con esattezza come, ma di certo avrebbe preteso per Seokjin qualcosa di più... di più e basta. Non lo vedeva raggiante e coinvolto come avrebbe desiderato e questo lo intristiva. Per lo meno, però, era grato di sapere Jin a casa insieme a lei, di sapere dove fosse e che stesse bene; magari una relazione sarebbe servita per fargli mettere la testa a posto.

Con l'intento di andare in camera senza disturbare, poggiò la giacca sull'ampio divano, si tolse le scarpe e, leggero, si avviò verso il corridoio. Passando di fronte alla stanza di Jin, però, si ritrovò quasi costretto a essere testimone della conversazione tra lui e la ragazza.

«Due biglietti per il Luna Park?! Wow! E non me lo dici?»

«Sono il regalo di Nam per il mio compleanno.»

«Bene e quando ci andiamo? Io ho liberi questo lunedì e mercoledì, ma sappi che detesto le giostre: tutte quelle urla mi confondono.»

Namjoon si sentì per un attimo perso, come se il suo cuore si fosse ritrovato improvvisamente sospeso, con un lungo ago conficcato al suo interno. Non aveva mai preso in considerazione l'idea che Jin potesse utilizzare il secondo biglietto con qualcun'altro. Sebbene sapesse perfettamente che la cosa giusta da fare era andarsene, non riuscì a impedirsi di continuare a origliare.

«Perfetto! Sono felice che le detesti, davvero.»

«Che vuoi dire scusa?»

«Voglio dire che tanto non ci dovrai venire: ci andrò con Nam, è stato lui a pensare al Luna Park ed è una cosa tra me e lui.»

Namjoon non avrebbe saputo ripetere il resto della conversazione. A quelle parole smise di ascoltare; aveva sentito tutto ciò di cui aveva bisogno. Si diresse verso la sua camera, con un sorriso sollevato stampato in volto e il cuore decisamente più leggero.

ϟ 

Quando Jimin e Yoongi si erano salutati, quest'ultimo aveva deciso di rimanere ancora al tavolo; sentiva la pulsante necessità di riflettere in solitudine e in quel luogo, circondato da estranei che non badavano a lui, si sentiva in pace, libero di pensare al riparo da sguardi indiscreti. Puntò lo sguardo sulla sedia prima occupata da Jimin, ormai vuota, e gli tornarono alla mente le parole del ragazzo.

Stavi pensando a una persona, vero?

Non era neanche stato in grado di dargli una risposta. Non era rimasto in silenzio di proposito, perché offeso o infastidito da quelle parole; non aveva parlato perché semplicemente una risposta non la aveva. Ormai da qualche tempo evitava di farsi domande, non appena si ritrovava a riflettere cercava di impegnarsi in altro. In poche parole stava evitando di venire a patti con la propria coscienza. E Jimin, con una semplice, banale domanda lo aveva messo di fronte a tutta la sua codardia: quella frase era stata uno schiaffo di consapevolezza. Quella sfumata percezione che nutriva dentro di sé, quell'intuizione che gli aleggiava in mente, martellante, in un ostinato tentativo di aprirgli gli occhi, stava ora urlando a pieni polmoni nelle tempie.

Era davvero ora di darsi una risposta.

«Stavi pensando a una persona, Yoongi?» Si domandò, internamente.

«No, stavi pensando al quadernino e basta, le persone non c'entrano."
Si disse in un attimo, quasi automaticamente. Eppure un senso di fastidio non gli permetteva di sentirsi confortevole nella sua stessa pelle; era perfettamente consapevole di star mentendo a se stesso, ma quella dannata vocina non poteva davvero essere la risposta.

Colto da un eccesso di frustrazione, scosse la testa, come a cacciar via quei pensieri fastidiosi e prese quel dannato taccuino nero; lo aprì. Era giunto il momento di leggerlo: non lo avrebbe mai fatto prima, temeva immensamente il potere delle sue stesse parole. Quelle frasi, quelle poesie erano una finestra aperta sulla propria interiorità e rileggerle era una delle sue più grandi paure. Non aveva idea di come affrontare i propri sentimenti, scrivere era tutto ciò che aveva, l'unica valvola di sfogo rimastagli a disposizione.

Ma Hoseok aveva letto tutto e aveva bisogno di sapere cosa avesse letto, aveva bisogno di scoprire quanto compromettenti potevano essere state le pagine di quello stupido quaderno, cosa potesse pensare ora quel dannato cameriere di lui, cosa potesse aver provato sfogliandolo.

Rimase immerso nella lettura per una buona oretta, tornando quasi incredulo sulle stesse pagine ripetutamente; gli occhi che scorrevano veloci da una parte all'altra del foglio, analizzando ogni minima traccia d'inchiostro lasciata impressa sulla carta. Non aveva letto con il suo solito occhio critico e razionale, aveva letto d'istinto, provando tutte le emozioni che non avrebbe mai pensato di poter essere in grado di provare. Rilesse con attenzione più volte, fino quasi a conoscerne a memoria il contenuto. Si guardò un istante intorno, con occhi che sembravano alla ricerca di un aiuto, di un appiglio.

Hoseok aveva letto, Hoseok lo aveva portato a leggere. Ma non c'è mai limite al peggio.

«Hoseok è l'oggetto dei miei scritti» Sussurrò tra i denti, mentre guardava fisso il bicchiere di fronte a sé.

Continuando a non distogliere lo sguardo, prese il taccuino e lo ripose nella borsa; nasconderlo era l'unico gesto che poteva fare per tentare ancora una volta di ignorare ciò che provava, ma ormai il danno era fatto.

Lasciò di fretta i soldi sul tavolo e uscì. Il vento gelido di Dicembre lo colpì in pieno petto; non aveva neanche pensato di mettersi la giacca, in quel momento non gli interessava affatto: difficile sentire freddo quando si è davvero preoccupati.

«Hoseok?! - pensò - davvero? Hoseok?!» E, in quell'istante, scoppiò in un'amara risata nervosa.









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