3 - Non posso crederci...

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Harry

«Harry?»

Credo sia la terza volta che il mio nome viene urlato da dietro la porta della mia stanza, o almeno quelle che sono riuscito a contare. Non ho la minima idea di che ore siano e nemmeno m'importa saperlo. Ho troppo sonno per alzarmi dal letto e anche se non ho bevuto molto ieri sera, mi fa lo stesso male la testa, forse per le urla che continuano ad arrivare dal corridoio.

«Harold Ethan Stevens!» La porta della camera viene spalancata, ma resto del tutto indifferente ai passi di mio padre che sento avvicinarsi sempre di più al letto. Fingerò di dormire sperando che se ne vada. «So che sei sveglio.» Le coperte mi vengono strappate di dosso con un gesto brusco, ma non mi muovo di un solo millimetro. «Alzati immediatamente. Hai quindici minuti per doccia, colazione e vestirti. Se tarderai anche di un solo minuto ti trasferirò all'ufficio contabilità.» Con la velocità di un bradipo mi giro su un fianco.

«Sempre molto delicati i tuoi risvegli, papà. Così sì che mi fai venire voglia di alzarmi.» La mia voce sembra provenire dall'oltretomba, ma ho davvero troppo sonno.

«Se ti degnassi di comportarti come un adulto maturo e indipendente avresti un risveglio degno di tale nome. Ora muoviti prima che dica a Brenda di far sparire la tua colazione nel cestino della spazzatura.» Ho gli occhi semiaperti e lo guardo allontanarsi. È impeccabile nel suo completo firmato fatto su misura e quando si ferma sulla porta, capisco che la sua ramanzina non è ancora finita. «E mi spieghi perché continui a dormire qui, quando hai una casa tua?» Non rispondo, non ne ho le forze, quindi il dito medio glielo faccio solo con il pensiero.

Non mi sono ancora alzato dal letto e sono già stufo. Il pensiero di trascorrere un'altra giornata in quel dannato ufficio mi fa venire voglia di girarmi dall'altra parte e continuare il sogno che stavo facendo prima che mio padre mi riportasse su questo pianeta.

Mi alzo controvoglia per andare a fare la doccia nel bagno personale della mia camera da letto. Brenda mi fa trovare ogni giorno un asciugamano pulito e il mio bagnoschiuma preferito. In cucina trovo la mia colazione preferita. Nell'armadio ho sempre vestiti stirati e ordinati, e secondo mio padre dovrei andare a vivere da solo quando qui c'è Brenda che lavora per noi da quando sono nato e mi coccola come se fossi suo figlio?

Può anche scordarselo.

Quando scendo per fare colazione con addosso solo i pantaloni della tuta – che ho messo giusto per non presentarmi in mutande – lei è intenta in cucina a preparare qualcosa. Questa donna è instancabile.

«Buongiorno, Brenda.» Si volta a guardarmi con un sorriso contagioso.

«Harold perché non ti vesti prima di scendere?» Lei è l'unica, a parte mio padre, a usare il mio nome per intero. Mi avvicino e le do un bacio sulla guancia. Le voglio bene, mi ha cresciuto, e mi è stata molto più vicina di quanto non l'abbia fatto il mio impeccabile genitore.

«Perché papà rompe.» Brenda alza gli occhi cielo e, anche se è abituata ai miei battibecchi con papà, non si è mai rassegnata a sentirmi parlare così di lui.

«Harold sai che ti vuole bene, magari è un po' sbrigativo, ma anche tu hai un caratteraccio.» Stavolta sono io ad alzare gli occhi al cielo e mi riempio la bocca di pancake per non dire qualche cazzata che la farà di certo arrabbiare.

«Feffo, coe oi.» Si volta di nuovo verso di me con uno sguardo di rimprovero.

«Harold quante volte ti ho detto di non parlare con la bocca piena.» Alla fine scoppiamo a ridere, mentre cerco di non sputare tutto nel piatto.

Per il resto della colazione cerco di comportarmi meglio, Brenda merita la parte migliore di me. Terminato di mangiare vado a vestirmi con uno di quegli stupidi completi da ufficio a cui mio padre tiene tanto. Lavorerei allo stesso modo con i miei jeans neri, ma afferma che non sarei credibile agli occhi degli investitori. Recupero il cellulare che ho messo sotto carica ieri sera e lo accendo, prima di infilarlo in tasca. Indosso anche le scarpe, scendo a salutare la mia Brenda lasciandole un bacio sulla guancia e mi avvio alla porta di uscita per salire in auto con i miei soliti cinque minuti di ritardo.

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