Chapter θ

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La prima persona che Louis aveva avuto modo di vedere, era stato Zayn; e non perché, in quello strambo ordine gerarchico costruito autonomamente dal suo cuore, il pakistano risiedesse ai piani più alti. Certo, Louis gli era grato, per tutto quello che aveva fatto per lui: gli era grato di averlo raccolto, ogni volta, correndo da un posto all’altro nel disperato tentativo di trovare il suo corpo dolorante e, il più delle volte, la sua mentalità prettamente frustrata; annebbiata, abbattuta. Indecisa sul cosa credere o, addirittura, pensare.

Era stato Zayn, il primo a vederlo, perché era stato il primo a presentarsi. E questo non indicava certo che sua madre, o chiunque altro all’interno della sua largamente amplificata cerchia famigliare se ne fregasse di lui; tutt’al più, era stato Zayn a portarlo in ospedale. Ed entrambi, durante il tragitto, erano stati estremamente silenziosi. Non che Louis sentisse un irrefrenabile desiderio di recarsi all’interno di quella struttura dalle pareti tinte di verde, questo è vero, e nemmeno Zayn sentiva il bisogno impulsivo di correre in ospedale con quel corpo semincosciente stretto fra le braccia.

Semplicemente, la mente di entrambi era sospinta da una brezza leggere tanto quanto pungente e incostante a percorrere un’unica, ben precisa pista, sulla quale l’onda d’urto emessa dai loro pensieri scalpitanti scivolava abilmente, come una pattinatrice farebbe il giorno delle Olimpiadi sul ghiaccio; entrambi pensavano a qualcosa che era avvenuto parecchio tempo prima, ma non abbastanza indietro nel tempo, nel remoto passato, perché i suoi colori si fossero sbiaditi, lasciando così che le immagini perdessero quella crudeltà della quale erano impregnate, addolcendosi.

 

Louis si guardò attorno, spaesato; ricordò di essere passato dalle braccia di Zayn a quelle di un altro medico, più basso ma certamente più robusto rispetto all’amico. Ricordò anche di aver sentito il suddetto dottore protestare, intimando a Zayn di restare in sala d’aspetto fintanto che gli esami non fossero stati ultimati, ma l’altro non volle sentir di ragioni e, autorevole come Louis aveva scoperto egli fosse, aveva imposto all’intera equipe medica la propria presenza.

Ora Louis si trovava steso su di un letto d’ospedale- uno scomodo, orrendo letto d’ospedale, e Zayn se ne stava comodamente seduto sulla sedia affiancata alla parete a pochi metri di distanza da lui.

“Chiameranno mia madre, non è così?” domandò Louis, con voce flebile, voltando di poco la testa in direzione di Zayn; di quel tanto  che gli fu indispensabile affinché potessero guardarsi negli occhi.

Zayn fece spallucce, e poi “ho dato al medico il numero di mia madre. Prima che tua madre arrivi in ospedale e inizi a riempirti di domande, Louis, ho bisogno che tu mi dica quale versione dei fatti preferisci raccontare”. Aveva corrugato la fronte, Zayn, e il suo viso si era fatto serio; mortalmente serio.

Louis sbuffò, un senso di sollievo fulminante a lacerargli il petto; ma sapeva, infondo, che tale ferita non avrebbe mai potuto fargli alcun male. E questo lo capì ancor meglio quando sentì come se un macigno gli fosse appena stato tolto da sopra lo sterno.

“Dove mi hai trovato, Zayn?” chiese Louis, che in quel momento sentì il proprio cervello intorpidirsi; annebbiarsi, celandogli tutti quei dettagli che avevano così artisticamente coronato il malevolo evento avvenuto solo pochi giorni prima.

“Nella cascina per la legna, quella abbandonata in mezzo al bosco” ribatté l’altro, scuro in volto, senza mezzi termini. “Suppongo tu abbia detto a tua madre che saresti stato per qualche tempo a casa di un amico. Altrimenti non si spiega come cazzo abbia fatto a non impensierirsi in seguito alla tua assenza durata poco meno di una fottuta settimana, Louis”

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