3. Coming out

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Cloe si è appena stesa sul letto accanto a me.

Le sorrido, la chiamo con un gesto, lei si avvicina e si appoggia sul mio petto. Poi comincia a leccarmi il viso e io mi metto a ridere mentre le arruffo il pelo castano, ormai un po' bianco ai lati del muso.

Papà mi dice sempre di non farglielo fare, che questo è il suo modo di dominarmi, che dovrei farle capire che sono io il padrone e lei non può fare quello che vuole con me. Ma io la adoro, non ci posso fare niente. Adoro quando mi dimostra così il suo affetto. È il mio cane da ormai undici anni, la mia bassottina a pelo ruvido. Mi segue ovunque.

Sento la voce di papà, dalla stanza accanto, come una vibrazione sommessa e profonda. Emerge dal silenzio, inesorabile nella sua calma spietata.

Tutto il mio staff personale (papà, zia Elena e il suo assistente Roberto) è radunato nella mia suite a due stanze che abbiamo adibito a quartier generale. Io sono scappato di qua, nella camera in cui dormo, quando ho capito che non sarei riuscito a discutere con papà.

Lui non vuole giustificazioni da parte mia. E devo ammetterlo: ha ragione.

In questo momento sono tutti e tre occupati a decidere quale sia la miglior reazione alla catastrofe d'immagine che è successa stamattina. In collegamento telefonico c'è persino Simon, il capo della mia agenzia di rappresentanza, che si scomoda in prima persona solo per le questioni davvero importanti.

Papà è furioso e non lo biasimo. Sono stato così stupido! Ovviamente c'era qualcuno che ci stava filmando con un telefono. I "rivali" next-gen a un tavolo, insieme, che parlano... che spettacolo!

Detesto che ci definiscano "rivali", quando è così evidente che ci separano parecchi livelli. Lui ha vinto un match contro di me. Uno! Può capitare a tutti di battere qualcuno più forte. Non è un singolo incontro che fa una rivalità.

Mi consolo pensando che tutto questo blaterare di rivalità finirà presto. Con quello stile e con quei colpi, Tomlinson non andrà da nessuna parte. Dubito che riuscirà mai ad arrivare in top 100.

Ma la mia sconfitta purtroppo è ancora fresca. Siamo al primo turno dello Slam e la stampa ha poco di cui parlare.

Quindi era ovvio che il mio sfogo di rabbia al ristorante finisse su ogni singolo sito tennistico del pianeta terra, con la mia voce ben udibile, e la mia balbuzie più ridicola che mai.

Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto fare più attenzione.

Sono stato stupido.

Ci sono talmente poche registrazioni pubbliche di me che parlo (e balbetto), si contano sulle dita di una mano e risalgono tutte a quando ero piccolo. Nelle conferenze stampa comunico sempre con la lingua dei segni americana, è un accordo che ho dai tempi del circuito junior: c'è un interprete a ogni conferenza e, più o meno da quando sono diventato top 10, persino nelle interviste in campo post-match (in precedenza queste interviste mi venivano risparmiate).

È stata un'idea di zia Elena. Conosco la lingua dei segni americana da quando sono bambino. È la mamma che me l'ha insegnato. Ha scelto quello americano e non quello italiano perché è più diffuso. Parlavo spesso così, insieme a lei, e alla fine dei suoi giorni era quasi l'unico modo con cui lei comunicava.

La mamma non era sorda. Aveva imparato la lingua dei segni per me, e me l'aveva insegnata per darmi una via di scampo ai miei inestricabili garbugli vocali.

Papà inizialmente era contrario, perché diceva che quella via di scampo non mi avrebbe mai fatto guarire. «Ma a posteriori la cosa si è rivelata una buona mossa di marketing» è ciò che commenta sempre zia Elena.

Play - Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora