117. Like black holes in the sky

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Sto prendendo un antidepressivo.

Una volta al giorno, prima del pranzo.

Mi fa stare meglio? Non saprei. Ero talmente intriso di apatia che questa situazione di nuova normalità forse è meglio. Ma non mi sembra di stare bene. Non è una medicina miracolosa.

Non sono felice. Ma non sono neanche triste. Forse è bene.

E cerco di fare qualcosa. Ogni tanto. Oggi ho pulito la mia camera. L'ho pulita da solo, non l'avevo mai fatto in vita mia. C'è una signora delle pulizie che ci pensa, di solito, quindi non era veramente sporca, ma ho voluto fare un lavoro di rifinitura molto meticoloso, occupandomi anche degli scaffali alti, dell'interno degli armadi e di tutti gli angoli più nascosti. Ci ho impiegato tutta la giornata, dalle otto di mattina alle nove di sera, con pause per sgranchirmi e mangiare. Non so se ho fatto un buon lavoro, non so nemmeno se ho impiegato i prodotti giusti.

Sto vedendo uno psichiatra, il dottor Sfiligoj. Due volte a settimana.

Uso il verbo "vedere" perché non faccio altro. Lui viene qui, ci mettiamo nel soggiorno, da soli. E non parlo. Parla solo lui. Poco.

Non riesco a parlare con nessuno. Ancora non ci riesco.

Lui mi ha spiegato in parte quali sono i miei problemi. Mi chiede che effetto mi fa la terapia e io rispondo a cenni. Mi fa molte domande a cui non rispondo. Mi dà qualche suggerimento. Ogni tanto mi mostra delle foto, delle immagini, cerca delle reazioni. Scrive molto. Ci vado perché penso che Louis vorrebbe che ci andassi, ma mi sembra una perdita di tempo.

Cercano di comunicare con me. Tutti. Papà, Zoe. Persino il nonno ha provato a dirmi qualcosa. Alessandro è alle Finals (si è qualificato in doppio), ma se fosse qui, di sicuro proverebbe a parlarmi anche lui.

Mi danno dei fogli per farmi scrivere, ma non riesco a stringere la penna in mano. Mi danno il cellulare, ma il cellulare mi spaventa. Ogni volta che me lo mostrano scappo via. Ogni tanto rispondo con qualche cenno della testa, è tutto ciò che riesco a fare. E non ci riesco sempre.

È come se qualcosa mi bloccasse. Un senso di angoscia interno. L'idea che se rispondo a una prima domanda, poi dovrò rispondere anche a una seconda, e a una terza.

Con la mamma parlerei, con la lingua dei segni. Mio padre ci ha provato. Mi ha chiesto: «Come stai?» con la lingua dei segni americana. Gli ho risposto. Gli ho risposto con una frase molto complicata che ovviamente non ha capito. Lui avrà imparato come si dice "bene" o "male". lo gli ho detto: «Le giornate sono lunghe e stancanti, vorrei che finissero all'alba.»

È stato un errore. Lui ha pensato che fosse un passo avanti e ci ha riprovato, portandosi un interprete, la seconda volta. Per fargli capire che non avevo alcuna intenzione di parlare con gente sconosciuta (gli estranei mi angosciano), appena si e presentato in camera mia insieme a questo tizio, sono andato in bagno e mi ci sono chiuso dentro. Spero che il messaggio fosse abbastanza forte: voglio essere lasciato in pace. È successo due giorni fa, e non ci ha più riprovato.

***

Le giornate sono lunghe e stancanti, vorrei che finissero all'alba. È la verità. Lo psichiatra mi ha detto che le medicine servono a sistemare lo squilibrio dei miei neurotrasmettitori, ma che poi anch'io devo lavorarci su, cercando si capire quali sono le origini del mio malessere e trovando uno scopo.

Il problema è che uno scopo io non ce l'ho. Mi sveglio e non so cosa fare. Non ho voglia di fare niente. Ho voglia di provare a fare qualcosa, questo sì, e credo sia un impulso che mi viene unicamente dai medicinali. Ma cosa? Non lo so.

Ho passato la mia intera vita a giocare a tennis, da che ne ho memoria. La mia intera vita è stata proiettata su quella traiettoria, diventare un campione, diventare il numero uno, diventare il più grande tennista di tutti i tempi. Non lo voglio più, e il vuoto lasciato dal tennis è una voragine impossibile da riempire. Non ho interessi, non ho pulsioni, non ho desideri.

Play - Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora