85. Non la conto

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Spogliatoio. Dieci minuti alla chiamata in campo.

Louis è qui. Lo sento che si muove. Mi sono messo in un angolo defilato della sala, dietro un divisorio di armadietti, per non doverlo vedere prima dell'inizio.

È silenzioso, non credo ci sia nessuno con lui. Con me ci sono sempre e solo Armando ed Ethan. Quest'ultimo mi sta facendo un rapido massaggio alle gambe, per tenerle calde prima di uscire.

Non riesco a evitare di pensare alla bustina di Zoe.

Mi ha terrorizzato.

Ieri sera sono andato nel panico e l'ho buttata nel WC. Lo sciacquone non la faceva scendere, l'ho dovuto tirare tre volte.

Poi mi sono lavato le mani due volte. Ho il terrore che qualche particella di droga possa essere fuoriuscita e io l'abbia respirata e mi sia entrata in circolo. La bustina sembrava ben sigillata, ma non si sa mai! Magari l'esterno era contaminato, e io l'ho toccato! Per non parlare di possibili particelle sui vestiti o sul corpo di Zoe: ci abbracciamo spesso, se mi fossero finite in circolo così? Sono terrorizzato dal risultato del mio prossimo esame antidoping.

E non è l'unico pensiero che mi assilla. C'è anche il problema di cosa penserà Zoe: si renderà conto che sono stato io a buttare la bustina? Per ora non mi ha detto niente, ma magari non se n'è ancora accorta.

Ieri sera sono rimasto così sconvolto dalla cosa che mi è passata qualsiasi voglia di rubarle di nuovo i biscotti.

«You're tense» mi dice Ethan. Sei teso. Sì, lo sono.

Sento un borbottio, nello spogliatoio: è la voce di Louis. La riconosco. Anche se non capisco cosa sta dicendo perché parla a un volume troppo basso, riconosco il suo timbro, la sua vibrazione caratteristica. Cosa sta dicendo? Con chi sta parlando? Allora c'è qualcuno del suo staff con lui? O sta parlando al telefono?

Cinque minuti. Mi alzo. Bevo un po'. Controllo di avere tutto in borsa. Prendo la racchetta: mi piace sempre uscire in campo tenendo in mano la prima racchetta con cui giocherò. Sulle corde c'è l'antivibrazioni che mi ha regalato Louis: il disegno della piccola Cloe. Vederlo mi riempie di nostalgia, ma anche di pensieri felici. Mi piace usarlo. Mi piace guardarlo.

Per uscire devo passare davanti a lui.

Avvicinandomi, mi accorgo che le parole che sta pronunciando sono in russo. Non le capisco, ovviamente, ma identifico dei "Vanja", in mezzo.

Eccolo.

Sta parlando da solo.

Ha lo sguardo perso nel vuoto, ondeggia il busto avanti indietro, e mormora una cantilena in russo. Cosa sta dicendo? Sta parlando a se stesso?

Mi guarda. Interrompe il borbottio. Mi fissa, con la bocca socchiusa, e lo sguardo un po' vacuo. Ha una fasciatura stretta sotto al ginocchio destro, e anche del kinesio-tape lungo l'adduttore.

Non si sta divertendo.

Ho visto delle grosse porzioni dei quattro incontri che ha giocato qui a Montréal, e non ha giocato come al solito. Ha sofferto. Forse perché gli faceva male il ginocchio. Forse per qualche altro motivo. Non ho ancora visto come ha giocato a Umag, al torneo che ha vinto. È cambiato qualcosa in lui? O è solo il recente dolore fisico che ha cambiato il suo modo di giocare?

Mi fa un cenno di saluto con la testa. Glielo faccio anch'io.

Vado.

Esce dallo spogliatoio poco dopo me e mi si mette davanti, perché deve uscire in campo per primo, il suo ranking è più basso del mio.

Il centrale è pieno.

Sorteggio. Riscaldamento. Spingo un po' la palla, per testare le sue reazioni e capisco subito che sarà un incontro orribile. Non è al cento per cento. Ma nemmeno all'ottanta. Ma nemmeno al cinquanta. Perché si è presentato? Sarebbe stato meglio se si fosse ritirato. Mi aspetto che da un momento all'altro dia forfait, prima ancora di iniziare.

Play - Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora