72. Umiliazione

82 4 0
                                    

Non mi ero mai reso conto di quanto fosse umiliante la pratica di Wimbledon che costringe i due avversari a uscire insieme dal campo dopo la fine dell'incontro. Lo sconfitto è obbligato a sfilare insieme al proprio carnefice davanti agli occhi di tutti gli spettatori che hanno assistito alla sua disfatta.

È crudele. Dover stare vicino alla persona che odio di più al mondo, in questo momento. Ma soprattutto: doverlo aspettare. Aspettare è l'umiliazione più grande.

Immobile, in piedi, borse già in spalla, schiena dritta e viso rivolto all'uscita. Lui dietro di me, che si prende tutto il tempo che gli serve, non un secondo di meno, per raccogliere le sue cose, che nel corso del match ha sparpagliato disordinatamente tutto intorno alla sua panchina.

Vedo le facce di nobili inglesi, nel Royal Box. Non del principe, lui, di solito, va solo alla finale. Ci sono Kate Middleton e sua sorella (non ricordo il nome). Qualche altro lord e lady e V.I.P. inglesi di cui ignoro l'identità.

Mi guardano.

Mi giudicano perdente. Pensano: è la quarta volta che perdi contro di lui. E oggi ti ha superato anche in precocità, e quello è un divario che non potrai mai colmare. Mai, mai, mai!

Mi guardano con quelle loro faccette composte ed educate da inglesi upper class, e li odio. Odio loro e odio Wimbledon, la sua compostezza, la sua etichetta, gli elegantissimi completi bianchi.

Vorrei prendere la racchetta e spaccarla sulla faccia di ogni singolo occupante del Royal Box, no, meglio, di ogni singolo spettatore. Togliere loro tutta la graziosa eleganza con cui stanno applaudendo. Vorrei essere a Flushing Meadows, agli US Open, con la loro mancanza di etichetta, il loro pubblico chiassoso e disordinato, e il loro tie-break al quinto. Col tie-break al quinto avrei vinto io. Louis è una frana, nei tie-break decisivi.

Eccolo. Ha finito.

Solo pochi metri insieme, poi lui si fermerà a farsi intervistare, subito fuori dal campo.

Camminiamo, io davanti, lui dietro. Passo le telecamere, a testa bassa, l'intervistatrice è già pronta, non la saluto.

«Louis!» sento che esclama alle mie spalle. Nemmeno pronuncia correttamente il nome, ma non m'importa, lo chiami come vuole.

La strada verso gli spogliatoi è lunga, troppo lunga. Non voglio farmi la doccia qui. Non voglio rischiare di incontrarlo in privato, non voglio parlarci.

Mai più.

Incontro mio padre e zia Elena all'ingresso degli spogliatoi e dico loro di chiamare subito i giornalisti in sala stampa.

«Niente doccia?» mi chiede papà. Gli faccio di no con la testa.

«Poi però devi fare i trattamenti» ribatte.

«A c-c-casa.»

Papà scuote la testa borbottando.

«È una vergogna che ti sei fatto portare a ventisei» aggiunge dopo qualche secondo di silenzio.

La zia, intanto, è corsa avanti, penso ad avvisare la responsabile della sala stampa.

«Ed è una vergogna come ti sei fatto fregare sull'ultimo punto» prosegue papà.

«Mi ha ffffatto uuuuun ace di seconda» sbotto. «Cosa potevo fare?»

«Potevi non fare lo splendido! Hai avanzato, per rispondere. Lo facevi in continuazione. Cosa pensavi di ottenere? Tante volte ti è andata bene, ma sul punto più importante...»

«lo non sono p-pauroso!» lo interrompo. «Non g-g-gioco col braccino e non arretro. Mai!»

«A volte bisogna sapere quando...»

Play - Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora