110. Laver Cup

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Ormai vincere è diventata una routine.

Toronto, Cincinnati e gli US Open. Back to back. Diciotto incontri. Diciotto vittorie di fila, con solo una misera settimana di pausa dopo Cincinnati.

In realtà il mio strike vincente ammonta addirittura a ventisei, perché comprende anche tutte le partite di Wimbledon (e poi non ho più giocato, perché ho saltato Washington). Non è un record (lo detiene da più di trent'anni Guillermo Vilas, con quarantasei vittorie), ma è comunque un risultato straordinario.

Ho vinto due Master mille e uno Slam. Il mio terzo Slam. Me ne manca uno per fare il career slam. A ventun anni.

E sono state le cinque settimane più brutte della mia vita.

Giornate senza equilibrio, in cui sono ripetutamente passato dalla furia agonistica più devastante, a un'apatia che quasi mi impediva di alzarmi dal letto. Sbalzi di umore che mi sorprendevano nello spazio di pochi minuti. Giocavo un incontro, lo vincevo sei zero, sei uno, lottando ogni punto come se da quel punto dipendesse la mia stessa vita, e appena l'arbitro annunciava il mio nome, tutta la tensione si scioglieva nel nulla, lasciandomi in bocca solo un sapore amaro, un'insoddisfazione profonda.

Alcune mattine mi svegliavo, e all'idea di dover prendere una racchetta in mano mi veniva da vomitare. Letteralmente. Ho vomitato più di una volta, la bile acida del digiuno notturno.

Ho avuto anche qualche ricaduta nel mio problema a controllarmi col cibo. Mi sono strafogato ordinando pasti aggiuntivi in camera: mi sentivo giù e avevo voglia di consolarmi con dei dolci. Sono sempre solo e nessuno mi controlla. Sono stato male, mangiando troppo, ma la prospettiva di stare male non mi ha frenato dal ripetere l'errore un paio di volte. Per fortuna Zoe se n'è accorta dai conti dell'hotel, me ne ha parlato e abbiamo deciso di bloccare la mia possibilità di chiamare il servizio in camera, per evitare che possa fare altre sciocchezze in momenti di apatia. I frigobar sono già sempre vuoti, da secoli. E di uscire per andare al ristorante da solo non me la sento. Non ne ho la forza.

Zoe, mio padre e persino Louis, che non vedo quasi mai e sento solo al telefono, sono preoccupati per me. Me l'hanno detto esplicitamente, ma io ho sempre cercato di minimizzare dicendo loro che non ho niente e sono solo un po' stressato. In un certo senso è vero, e delle due cose che mi stanno facendo stare male il matrimonio di Louis e la morte - della mamma - non voglio o non riesco a parlare con nessuno.

Zoe, dopo avermi beccato a mangiare di nascosto, ha cercato di convincermi a parlare con uno psichiatra o uno psicologo. Io mi sono rifiutato. Non voglio psicofarmaci e non voglio parlare dei fatti miei con uno sconosciuto. E per quanto riguarda il problema col cibo, non è un vero problema, è solo un mix di tristezza e stress. Se fosse un vero problema, non sarebbe svanito con una soluzione così sciocca come impedirmi di chiamare il servizio in camera; avrei trovato altri modi per aggirarlo, ma non l'ho fatto. Non ne ho alcuna voglia.

Vorrei solo sapere perché la mamma mi ha abbandonato.

Di questo ho provato a parlarne con una persona, con l'unica con cui avrebbe senso parlarne: mio padre.

Ci ho provato, davvero, con tutte le mie forze.

Ma al momento di far uscire la domanda dalle mie labbra, la bocca si inceppava in maniera irreparabile. Non riuscivo ad andare al di là della prima sillaba, e se ci riuscivo, era il mio respiro a strozzarsi in gola. «Harry, vorrei aiutarti» mi ha detto mio padre, al mio ennesimo tentativo. «Scrivimi. Scrivi qui quello che vuoi dirmi.» Un gesto incredibile da parte sua, che è sempre stato profondamente contrario a questa scorciatoia.

Ho preso il cellulare, ma le mani mi tremavano al punto da impedirmi di stringerlo. È scivolato a terra. Allora mio padre mi ha dato una penna e un foglio, ma appena ho appoggiato la punta sulla carta, sono riuscito solo a tracciare linee tremanti, incidendola e strappandola.

Play - Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora