17. L'inaspettato

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Ryker

"Il peggior nemico che puoi
incontrare sarai sempre tu
per te stesso."
Friedrich Nietzsche

Se c'era una cosa che più ripudiavo al mondo, ero io.

Detestavo il mio temperamento altalenante, i miei pensieri intrusivi e indecorosi, persino il modo in cui mi vestivo.

Odiavo afferrare quelle fottute sigarette in mano e la mia fama in giro.

Mi sdegnava il fatto che avessi deciso io di diventare in quel modo.

Ma quale altra scelta mi era rimasta?

Al mondo c'era chi non percorreva una strada con un bivio, soltanto una via dritta e senza uscita, alla quale si sarebbe dovuto adeguare.

Io ero lì, a camminare tra i boschi fitti e su pezzi di carbone ardente che mi ustionava la pelle.

E non c'era persona più folle di chi continuava a tirare dritto senza alzare il mento o voltarsi, alla ricerca di una scappatoia inesistente.

Io ero quel tipo di pazzo.

«Dovrebbe, invece. Io interpreto ciò soltanto come un enorme capriccio. Ha rifiutato più volte il nostro aiuto dopo il suo incidente e la perdita del nostro altro studente, Adam. Lo psicologo della scuola voleva parlarle al suo ritorno, ma ha rifiutato categoricamente. Dunque, mi porta a pensare che stia bene e che debba solo tornare sulla retta via.» Le parole del preside Jones mi si erano incastrate in testa.

Non perché mi fregasse qualcosa dei suoi avvertimenti, ma poiché era l'esatta dimostrazione che non ci aveva capito un cazzo di me.

Non aveva capito un cazzo nessuno, a dirla tutta.

Forse ero io nel torto, o, forse, lo era quel bambino timido che si isolava sempre.

Nessuno aveva colto cosa vi era dietro quegli occhi tristi ogni volta che doveva tornare a casa, dopo scuola.

Nessuno si era fermato a pensare come mai tremassi in bus a ogni fermata più vicina a casa.

Avevo cominciato a esistere solamente dopo la morte di Adam, quando l'intera cittadina si era svegliata con un nuovo giornale davanti alla porta di casa, un lunedì mattina.

Quando lesse il cognome della mia famiglia e la descrizione di quel tragico incidente.

Io non c'ero, ero in coma, ma le persone fecero il mio nome così tante volte che era come se fossi presente.

Mia madre e mio padre si occuparono della faccenda e, in una settimana, quella notizia sparì da ogni notiziario.

Nel momento in cui mi risvegliai, due mesi dopo, e fui dismesso, ebbi la necessità di cambiare la mia vita e certe mie abitudini.

In quel periodo non avevo una grande considerazione del tempo, dunque non sapevo dire quanti mesi passarono. Eppure, nel momento in cui tornai a scuola, divenni la persona che tutti, adesso, credevano io fossi.

Sbuffai, annoiato dalla conversazione avuta con il preside, e, alla fine, mi congedai con un sorriso, sollevandomi dalla sedia, senza nemmeno salutarlo.

Uscii da quell'ufficio ed ebbi la brutta sorpresa di incontrare mia madre, che aspettava il suo turno per entrare.

Strinse gli occhi quando mi vide, anche se ero consapevole che fosse stata lei a farmi convocare dal preside.

Si schiarì la voce, mentre la oltrepassai, e non le schiodai gli occhi di dosso per sfidarla.

Solo quando superai la sua spalla procedetti a camminare e la ignorai.

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