7. Il giusto posto delle parole

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Ryker

"È vero, io sono una foresta e
una notte di alberi scuri:
ma chi non ha paura delle
mie tenebre, troverà declivi
di rose sotto i miei cipressi."
F. Nietzsche

Come si poteva definire una sensazione che non riuscivi neanche a controllare?

Come si poteva attribuire due occhi e una bocca a qualcosa che ti sussurrava e strideva alle orecchie parole confuse e indefinite?

I miei stessi mostri rinchiusi nella mia mente mi terrorizzavano, annichilivano e ferivano. Non si potevano fermare, perfino alla luce ero in pericolo. E me ne stavo rendendo conto in quel momento, mentre sorreggevo un accendino in mano e osservavo la fiamma arancione contorcersi per l'oscurità della stanza.

Sulle gambe percepivo la leggerezza della lettera che avevo appena finito di leggere e accanto a me vi era la scatola con le altre, seduto sul pavimento in legno.

Eppure, un unico pensiero era rimasto appeso nella mia mente, forzando la mano che teneva l'accendino ad avanzare verso il mio polso.

Me lo meritavo, pensavo, frattanto che meditavo su quanto fosse invitante quella fiamma.

Ero sempre stato restio sul dolore fisico come forma di distrazione, tuttavia, la sofferenza era quello che mi meritavo dopo averla causata ad altre persone. Ed era incredibile come dopo anni ci fossi arrivato solo allora.

Avvertii un pizzicore che si fece più intenso su un lembo di pelle. Il mio inconscio mi ordinava di togliere il braccio da lì, ma non lo ascoltai finché il bruciore non risultò essere insopportabile. Allora, spinsi l'accendino via e feci una smorfia di dolore, seguita da un gemito.

Mi massaggiai la zona limitrofa e, non appena sfiorai la ferita, emisi un altro urlo gutturale.

Avevo fatto una cazzata, però il mio cervello marcio mi diceva che andava bene.

Era giusto e non vedevo l'ora di rifarlo.

Era in quel modo che ci si sentiva, terribilmente appagati di non aver pensato a nient'altro se non quello per qualche istante.

La suoneria del mio cellulare squillò e la luminosità abbaiante dello schermo fu il mio faro, in mezzo al buio della camera, per andarlo a prendere. Risposi subito dopo aver acceso la luce.

«Ryker, buongiorno», quasi non credevo di sentire la voce di mio padre.

«P-papà, che c'è? La strega non ti lascia dormire?» Chiesi sarcastico, adocchiando l'orario sul display, che segnava le cinque del mattino.

Non si alzava mai così presto, di solito la sua sveglia era puntata alle otto per essere seduto alla sua comoda poltrona d'ufficio alle dieci.

«Per il momento ho altro che mi mantiene sveglio... Ti voglio ricordare che oggi hai l'incontro con il rettore dell'università e altri due professori. Non vorrei essere rigoroso, ma ci terrei che facessi una buona figura.» precisò.

Cosa? Oggi?

Mi aveva informato del colloquio quando mi aveva fatto visita, ma non avevo contato i giorni che erano trascorsi e credevo che vi fosse ancora tempo.

«Sei pronto, vero?»

Certamente.

Non avevo chiuso occhi per tutta la notte, ero stato chino su quelle lettere per ore e non mangiavo da minimo dodici ore, non contando il numero di sigarette che avevo fumato.

Una ragazzina avrebbe associato la mia stanza a una ciminiera in quel momento. Eppure, lei non era lì e avevo perso la volontà perfino di cucinare.

«Così pronto che quando finirò non dovrai leccare il culo al tuo caro amico rettore per farmi ammettere.» sfoggiai sicurezza e audacia, due pedine che funzionavano sempre per convincerlo.

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