Ritorno a casa

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Austin Walker

Finalmente si è addormentata.
Non è stato per niente facile calmarla, soprattutto dopo che suo fratello ha messo piede in questa stanza; avrebbe provato a tutti i costi ad alzarsi e sarebbe corsa a strangolarlo, qualora non l'avessi trattenuta io stesso ancorata al letto; mi è persino toccato spingere il suo odioso consanguineo tra le braccia di un'infermiera venuta a controllare il motivo di tanto baccano.
Peccato che, subito dopo, mi si sia presentato davanti un problema ben più grosso di un demente ubriaco: la furia di Alexis.
Li ho contati.
Dieci sono stati i tentativi volti a staccarsi i tubi dalle braccia, e dieci sono state le volte in cui ho dovuto tenere strette le sue mani tra le mie per impedirglielo.
Per cinque minuti ha provato a sollevarsi, urlando che questa volta il fratello l'aveva combinata troppo grossa per lasciar correre, e per cinque minuti, alla vista della smorfia di dolore che compariva sul suo viso ogni volta che provasse a compiere anche il minimo movimento, le ho delicatamente tenuto le gambe ben appoggiate sul letto.
Una sola è la lacrima che ho visto scivolare sulla sua guancia, ed uno solo è stato lo schiaffo che mi sono beccato sulla mano quando ho provato ad asciugargliela con il pollice.

Le infermiere le hanno rifilato, insieme all'antidolorifico un sonnifero bello potente, che per un po' dovrebbe tenerla tranquilla.
Nonostante l'ultimatum che esse mi hanno dato, secondo il quale verrò sbattuto fuori a calci tra dieci minuti, sono ancora qui, seduto su questa scomoda poltrona e con una mano sul suo petto, controllando che respiri.

È strano vederla in queste condizioni.
Lei! Proprio lei che è energia pura, esplosiva e pericolosa, eccola relegata in un letto d'ospedale, con un braccio mezzo-rotto, dei tubi attaccati a quello sano ed i punti in testa.
La accarezzo piano sulla guancia, nel punto in cui quella singola lacrima non asciugata ha lasciato una striscia nera di mascara.
Tiro un gran sospiro, per poi alzarmi, raccogliere lo zaino e ficcarci dentro il calmante che quelli del pronto soccorso mi hanno raccomandato di prendere questa sera. Anche se dubito fortemente che riuscirò lo stesso a prendere sonno.
Mi fermo sulla soglia, lanciandole un ultimo sguardo.
Nonostante il sangue, nonostante l'incidente e nonostante stia pian piano riuscendo a levarmela dalla tasta, la trovo comunque stupenda.

Attraverso il corridoio con le mani nelle tasche e la testa bassa, per non rischiare d'incrociare gli sguardi delle simpaticissime signorine che mi hanno, praticamente, cacciato.
Mi ritrovo poco dopo nel freddo pungente e post temporale delle 3 del mattino. Davanti a me vedo la vettura fornitami dall'ospedale per tornare a casa, visto che il mio sub deve averlo portato via qualche carro-attrezzi per ripararne il tergicristallo. Al solo pensiero è come se un cubetto di ghiaccio mi scivolasse lungo tutta la schiena.
Salgo in auto, facendone partire il motore. Afferro il voltante con mani tremanti, espirando profondamente.
Riesco a calmarmi.
Inserisco la marcia.
Schiaccio sull'accelleratore e parto, a tutta velocità. Voglio arrivare a casa il prima possibile, per poter pensare, svuotare la mente. Non posso alla guida. Farlo adesso mi distrarrebbe ed ho il terrore che, questa sera, il destino non abbia ancora finito con me.
Imbocco finalmente il vialetto di casa, parcheggio e scendo, appoggiandomi con le spalle alla portiera. Aspetto ancora un paio di secondi prima di dirigermi verso l'uscio, inserire le chiavi nella toppa, girare e varcarne finalmente la soglia.
Lancio lo zaino sul divano e mi fiondo in bagno, sia per vomitare, sia per cercare di buttarmi tutto alle spalle con una bella doccia gelata.
Mia madre non si accorgerà di nulla; le medicine che prende per dormire da quando è morto mio padre la lasciano in catalessi per 8 ore filate.

Mi concedo il lusso di dare sfogo a tutto ciò che ho in testa solo quando le gocce iniziano sordamente e ripetutamente a picchiettare sulla mia pelle.

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