31.

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È il giorno dell'udienza in tribunale. Ho deciso che non mancherò per nulla al mondo. Oggi, se tutto va bene, Kostas tornerà a casa con me e non vedo l'ora perché nonostante tutto mi manca, da morire. Non lo abbandono adesso, non voglio farlo, nel bene e nel male io ci sono. Anche se dopo mi dovrà spiegare un sacco di cose, litigheremo per questo, già lo so, ma sono adesso, in questo momento, sarò con lui, qualsiasi cosa accada.
Raggiungo il tribunale, il suo avvocato mi aspetta fuori dicendomi che non mi devo preoccupare, che andrà tutto bene e che tra poco saremo di nuovo insieme. Lo spero. I giornalisti continuano a fotografare e parlare di me, di noi. Ma loro non sanno niente, non sanno l'uomo che è in realtà e non vogliono saperlo. Entro in aula con un magone in gola, mi siedo ed aspetto che tutto inizi. Dopo poco entra Kostas, scortato dalla polizia, ancora in manette per evitare che scappi. Lo guardo, è giù lo vedo, ma non accenna a mollare, la barba da fare, lo sguardo da duro e mi manca, ancora di più. Il mio cuore si stringe in una morsa, vorrei corrergli incontro ed abbracciarlo, stringerlo e baciarlo come facevamo prima di questo fattaccio. Più lo guardo e più mi dispiace da morire, mi sento il cuore in mille pezzi. Lo mettono seduto in malo modo e devo lottare con me stedsa per non alzarmi e dare due strilli, ma come vi permettete?
Si gira, mi guarda. Si, sono qui per te, con te. Gli faccio un piccolo sorriso come per fargli arrivare anche la mia forza.
«Sto con te, amore, sempre.»
Entra il giudice che lo chiama davanti per ascoltare cosa ha da dire. È più bello che mai è lo iniziano a far nero. Il giudice lo tartassa di domande, lui risponde a mezza bocca, come sempre, come faceva prima con me. Il suo avvocato ogni volta cerca di espandere le risposte. Non otteniamo nulla se non che il giudice lo manda fuori. Non tollerano questo tipo di persone, ci sta. È male, ma Kostas, il mio Kostas, non può non tornare a casa.
Il suo processo dura più di tre ore in cui lui si difende da solo, è rimasto solo lì davanti ma non lo è. Sono con lui, non gli stacco gli occhi da dosso. Credo che lo senta perché parla, non fa scena muta. Sto per crollare ma non posso, per lui, per noi. Se crollo anche io, lui come fa?
I giudici si ritirano per deliberare. Lui non si muove, neanche la testa gira. Non mi guarda, forse si vergogna, non devi, amore. Non devi. Guardami, sono qui. Quando rientrano, ci fanno alzare in piedi. Il giudice parla al microfono scandendo bene la voce.
Spiega con parole troppo complicate, mi sono persa. So solo che sto morendo dall'ansia e dalla voglia di tenergli la mano, chissà se ha paura, a cosa pensa, a come faremo.
Anche il suo avvocato è rientrato, così spiega lui a me. Per ogni omicidio sono trenta anni di carcere, ne dovrebbe fare a migliaia. Mi tremano le gambe.
"Dichiaro l'imputato colpevole per tutti i reati commessi, sconterà la pena con l'ergastolo in una cella di isolamento, niente visite, se non una volta al mese. Così è deciso, l'udienza è tolta." conclude e mi si gela il sangue nelle vene.
Il mondo mi cade addosso. Non uscirà più.. Solo una volta al mese potrò vederlo.. Mi viene da piangere ma non lo faccio, no. Devo essere forte.
Per la prima volta dopo quasi quattro ore, Kostas si gira, mi guarda e mi sorride, un sorriso che mi da la tranquillità che non ho, che ho paura adesso, che sono sola visto che mi hanno cacciata dal lavoro, che mi sento così sola che se non ho lui vicino mi sento di morire. Lo spingono per portarlo via, di nuovo. No.
Mi guarda ancora, gli sorrido, un sorriso di una che non si abbatte, che non lo lascerò solo, che ci sarò, nonostante tutto.
«Ti ami» gli mimo con le labbra.
Lui sorride di rimando ed è l'ultima cosa che vedo di lui, prima di vederlo scomparire, risalire in macchina e portarlo via, di nuovo.
Torno a casa, distrutta e a metà. Piango, da sola, nella mia camera. Piango per lui, per me. Per il dolore che mi provoca questa separazione forzata.
Piano, piano se ne vanno tutti dalla mia vita, lasciandomi con un peso grande. Gli amici si allontanano, la famiglia mi guarda con occhi diversi ed ogni sera mi ritrovo sola a pensare a cosa fa, se stia bene, se mi pensi perché io qui fuori sono come lui, in gabbia, spenta, triste.
Chiedo di vederlo, ma nessuno mi ascolta. Tutti i giorni la stessa storia. Per lui non è mai giorno di visite. Passa una settimana dal processo e qualcosa si muove. Rilasciano Ambrogio e i lavoratori della casa perché le indagini hanno confermato che loro non c'entrano nulla, erano solo lavoratori.
Sono spaesati, senza lavoro e senza casa. Ma sono con me, li accolgo in casa mia, visto che avevo una casetta in zona, mi fanno forza ed io sono più serena, anche se mi manca il fiato ogni volta che lo vedo al notiziario. Quanto mi manca..

L'avvocato mi chiama dicendomi che se voglio ancora, oggi lo posso vedere. Certo che voglio, non speravo altro. Mi faccio carina per lui, mi metto il profumo, mi trucco e corro a Rebibbia. Gli ho portato anche delle cose, visto che me le ero preparate per quando me lo facessero vedere. Entro e i poliziotti mi fanno consegnare subito la busta, dice che gliela daranno loro e che devono controllare che non ci sia niente di strano. Controllano anche me, chiamandomi "la moglie del boss". Sto zitta, non gli do peso, ma vorrei spaccargli la faccia, lo confesso.
Dopo vari step di controlli mi fanno entrare nella stanza delle visite dove ci sono delle sedie e dei vetri che non rendono possibile nessun contatto con i detenuti. Mi indicano la sedia e mi siedo. Intorno a me ci sono già tante persone. Una ragazza che è in lacrime presumo col fidanzato, da come si guardano penso sia così. Un padre che sorride al figlio, una nonna che sottobanco porta le cose buone da mangiare per il nipote. Tutti con quella tristezza negli occhi, tutti, compresa me che sperano che lui o lei torni a casa. Tutti che speriamo di avere un regalo più bello per questo Natale, il proprio caro a casa.

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